Ricordo bene
la preoccupazione degli appassionati che aleggiava intorno a Stray Dogs (2013), a quei tempi le voci che davano il film
presentato a Venezia ’13 come ultimo film
di Tsai Ming-liang impazzavano per la Rete e quindi una volta
visionato e una volta giunti a quella lunga sequenza conclusiva i
commenti, compreso ovviamente il mio, non lesinavano slanci di
carattere testamentario, epigrafico, tombale, come se non ci sarebbe
potuto essere un dopo. In realtà ci sbagliavamo di grosso perché
“un dopo” c’è stato eccome, basta prendere la pagina IMDb del
regista per vedere che la sua produzione dal 2013 in poi non solo è
continuata ma forse si è addirittura infittita, semplicemente il
maestro di Taiwan ha deciso, dopo una serie di indimenticabili
lungometraggi che sembrano, oggi, praticamente un tutt’uno, di
sondare altri territori, altri formati. Ad onor del vero questa
tendenza meno tradizionale si era già palesata con il primo episodio
del monaco errante (Walker,
2012) proseguita con altri due, a mio avviso dimenticabili, passaggi
bradipeschi, Journey to the West (2014)
e No No Sleep (2015),
ma è con Afternoon
(2015) e The Deserted
(2017) che facciamo conoscenza con uno Tsai decisamente
intraprendente pronto ad uscire dal recinto in cui, per la nostra
felicità, ha razzolato a lungo. Alla luce di tutto ciò non
sorprende un film come Ni de lian
(2018), siamo in presenza di un nuovo tassello minore della sua
filmografia, un documentario girato in un digitale che ci fa quasi
vedere la porosità della pelle facciale da quanto è alta la
definizione, un lavoro sulle persone (come sempre del resto), sulla
loro vita, sui loro ricordi, incastonati nello schermo con
tempistiche e modalità che rimangono, sempre, tsaiane.
Senza far
mancare una tiratina d’orecchi a chi ha deciso il titolo
internazionale perché così facendo abbiamo un Face (2009) e
un Your Face che non suonano
granché bene, se si scorpora l’impianto innovativo utilizzato
dall’autore, ovvero la sequenza di pseudo-interviste da parte di
soggetti sconosciuti, quello che rimane è, per quanto mi riguarda,
una forte continuità col passato, soltanto proposto in altre vesti.
Mentre ascoltavo le confessioni della donna super impegnata nel
lavoro o mentre il tizio dipendente dalle slot machine ci
ragguagliava sulla sua mestizia, io non ci ho visto nient’altro che
la trasposizione scevra del filtro finzionale delle storie che Tsai
ci ha raccontato da Rebels of the Neon God
(1992) – e sicuramente anche prima – in avanti. Quante sconfitte,
quante sconvolgenti solitudini, quanti amori smarriti, quante lacrime
amare hanno colmato i minuti delle opere di Tsai? E quanto delle
medesime sensazioni si sprigiona dai monologhi dei soggetti in Ni
de lian? E non solo dalle parole perché anche dai silenzi di questi esseri umani,
esattamente come dagli infiniti silenzi minglianghiani, si può
evincere qualcosa: un vecchio signore si commuove, un’altra ride
per stemperare l’imbarazzo. Abbiamo una sovrapposizione tra l’idea
di cinema di ieri e quella di oggi, concettualmente Your
Face, sebbene esteriormente si
mimetizzi in un’estemporanea ricerca antropologica, rimane Tsai al
100% con quel complesso ventaglio di emozioni impresse da decenni
nell’albo dei ricordi cinefili, e a fornire una specie di sigillo
di garanzia ci pensa l’inserimento finale del sempre fedele Lee
Kang-sheng, un segnale che sta a dirci che comunque, al di là della
forma data, Your Face mantiene
un’evidente paternità.
Non vorrei
però far venir meno alle riflessioni soprastanti una questione a cui
tengo: detto papale papale io non mi accontento, non mi sono
accontentato di vedere un Lee vestito da monaco che camminava a
rallentatore così come non mi basta uno studio di primi piani in cui
ravvisare marchi di fabbrica e/o segnali distintivi. Pretendo
dell’altro da parte di uno come Tsai Ming-liang, ne ho bisogno in
quanto spettatore perennemente alla ricerca di un nonsoche che spero
sempre di ritrovare nella settima arte. È possibile che Days
(2020) darà delle risposte a proposito.
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