Il discorso pare avere una certa spontaneità e per almeno tre quarti si sviluppa intorno ad un solo argomento: Kang-sheng. Non avevo mai sentito un atto di amore così limpido e viscerale di un regista nei confronti di un proprio attore, mai, perché è di ciò che si tratta: di amore, e Afternoon, se lo si vorrà ricordare in futuro, sarà perché dice al mondo intero che tipo di relazione sussiste tra queste due persone, le parole di Tsai potrebbero essere proferite da un padre, da un fratello o da un amante, è un’ammirazione totale che stupisce perché data la stazza dell’autore in questione era ipotizzabile che fosse Lee a venerare il diretto interessato e non viceversa. È una manifestazione d’affetto molto bella che oltre a mostrare un lato umano finora tenuto all’oscuro, aiuta a comprendere un modo di fare cinema tra i più coerenti della nostra epoca (almeno all’Anno Domini 2013), ovvero che se si è capaci di andare oltre le infinite sequenze mute, la procrastinazione degli stacchi del montaggio e i ripetuti ritratti di nera solitudine, ci sono dei sentimenti veri in gioco, un po’ il corrispettivo di Afternoon, un documentario privo di movimenti di camera (abbiamo solo due tagli se ho ben contato), inchiodato in una scenografia diroccata, respingente per via di una struttura lontana universi dai normali standard, che comunque rivela di possedere un grande cuore pieno di emozioni, paure, ricordi (“quale è il Paese visitato che preferisci?”) e riflessioni che esulano dalla settima arte. Sicuramente un’opera digeribile solo da chi ha il patentino tsaiano, può essere un limite, ok, però è ancora più limitante non conoscere l’eredità artistica che lascerà ai posteri.
Per completezza segnalo che nel 2016 anche Lee darà la sua versione dei fatti con Single Belief, un cortometraggio più rivolto verso se stesso, verso il ruolo attoriale ricoperto e meno votato alla nostalgia, all’introspezione, ma il link con Na ri xia wu esiste e va a formare un dittico da prendere in considerazione.
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