martedì 19 settembre 2023

Afternoon

All’inizio Tsai Ming-liang nota che le dita dei piedi di Lee Kang-sheng sono gialle, questo si deve al fatto che il fido compare del taiwanese ha dovuto sottoporsi a dei trattamenti per via della comparsa di alcune vesciche dovute a faticose camminate senza scarpe per esigenze di copione. Questo quadretto apparentemente innocuo metaforizza in realtà il senso di un’operazione come Na ri xia wu (2015): il regista ed il suo interprete hanno fatto insieme un lunghissimo cammino e ora, dopo quasi trent’anni, è giunta l’ora di un bilancio, quindi ecco un film-resoconto, un film-confronto, un film-dialogo, un film-memoria, soprattutto un oggetto che arriva poco dopo Stray Dogs (2013), lo spartiacque della filmografia tsaiana, che nelle intenzioni del Maestro sarebbe dovuta essere la pellicola definitiva, non sarà così perché poi sono stati dati alla luce altri esemplari della scuderia, però un cambio di rotta riguardante i formati e gli approcci c’è effettivamente stato. Per inquadrare l’intimità di una conversazione sia esistenziale che professionale era inevitabile l’utilizzo di un piano fisso che mettesse al centro chi fino a quel momento era sempre stato dietro la mdp, Tsai beve (sarà una coincidenza vista l’importanza che ha dato all’acqua nel corso della carriera?), Lee fuma, i due sono in una casa di loro proprietà ancora da ristrutturare circondata da un bosco, al di là del fatto che l’abitazione assomiglia a quella del già citato Jiao you, l’ambiente decadente ci restituisce una coppia che in linea con il set in cui si trovano può parlare molto di sé al passato, in verità è TM-l a condurre la chiacchierata tanto da trasformarla in una specie di soliloquio, mentre LK-s si stiracchia sulla poltrona, risponde a monosillabi, annuisce silenzioso, sembra continuare a vestire i panni di Hsiao-Kang, forse perché non vi è nessuna significativa interruzione tra la vita che conduce fuori dalla finzione cinematografica e quella che recita per il suo sodale.

Il discorso pare avere una certa spontaneità e per almeno tre quarti si sviluppa intorno ad un solo argomento: Kang-sheng. Non avevo mai sentito un atto di amore così limpido e viscerale di un regista nei confronti di un proprio attore, mai, perché è di ciò che si tratta: di amore, e Afternoon, se lo si vorrà ricordare in futuro, sarà perché dice al mondo intero che tipo di relazione sussiste tra queste due persone, le parole di Tsai potrebbero essere proferite da un padre, da un fratello o da un amante, è un’ammirazione totale che stupisce perché data la stazza dell’autore in questione era ipotizzabile che fosse Lee a venerare il diretto interessato e non viceversa. È una manifestazione d’affetto molto bella che oltre a mostrare un lato umano finora tenuto all’oscuro, aiuta a comprendere un modo di fare cinema tra i più coerenti della nostra epoca (almeno all’Anno Domini 2013), ovvero che se si è capaci di andare oltre le infinite sequenze mute, la procrastinazione degli stacchi del montaggio e i ripetuti ritratti di nera solitudine, ci sono dei sentimenti veri in gioco, un po’ il corrispettivo di Afternoon, un documentario privo di movimenti di camera (abbiamo solo due tagli se ho ben contato), inchiodato in una scenografia diroccata, respingente per via di una struttura lontana universi dai normali standard, che comunque rivela di possedere un grande cuore pieno di emozioni, paure, ricordi (“quale è il Paese visitato che preferisci?”) e riflessioni che esulano dalla settima arte. Sicuramente un’opera digeribile solo da chi ha il patentino tsaiano, può essere un limite, ok, però è ancora più limitante non conoscere l’eredità artistica che lascerà ai posteri.

Per completezza segnalo che nel 2016 anche Lee darà la sua versione dei fatti con Single Belief, un cortometraggio più rivolto verso se stesso, verso il ruolo attoriale ricoperto e meno votato alla nostalgia, all’introspezione, ma il link con Na ri xia wu esiste e va a formare un dittico da prendere in considerazione.

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