Il progetto
Un Film Dramatique (2019) è diverso dagli altri film fin qui
visti di Éric Baudelaire così come essi stessi divergevano, bene o
male, in un reciproco confronto: del substrato finzionale di The Ugly One (2013) non vi è
traccia, l’interesse geopolitico di Letters to Max
(2014) è praticamente assente, la trattazione di un argomento
contemporaneo e stringente come per Also Known as Jihadi
(2017) se c’è è parecchio flebile. È indubbio che si ha a che
fare con un autore assai eclettico interessato in egual misura sia
alle forme che ai contenuti. Per il film in esame parliamo forse del
suo studio maggiormente teorico applicato alla materia, il contesto
laboratoriale è una scuola media dei sobborghi parigini dove
Baudelaire si è insediato per quattro anni avviando un percorso di
pratica registica con alcuni degli studenti dell’Istituto. E
proprio a loro chiederà all’inizio la domanda delle domande: di
cosa deve occuparsi un’opera cinematografica? Ovviamente i
ragazzetti forniscono i loro amabili punti di vista ma forse nessuna
delle voci che udiamo su uno sfondo nero ha davvero preso coscienza
di due aspetti: che il film li riguarderà da vicino, e che saranno
in prima persona contemporaneamente al di qua e al di là della mdp.
Il prezioso asse concettuale del documentario che incontra i favori
del sottoscritto è dato da una libertà creativa e realizzativa che
si fonda su un coraggioso principio, ovvero l’auto-esautorazione
dal ruolo di regista che Baudelaire compie. Alla lontana è un po’
la medesima mossa attuata da Williams per Parsi
(2019), affidare una videocamera a chi in linea ipotetica non avrebbe
le credenziali per pigiare il tasto REC, si rivela una splendida
dimostrazione di autonomia artistica che esemplifica un’idea
romantica e bellissima: il cinema non ha bisogno di sofisticati
orpelli, esso vive ovunque e comunque, ci circonda, è nelle nostre
vite anonime, nella quotidianità dell’esistenza. E il fatto che
siano dei dodicenni o giù di lì a darne prova empirica fa
riflettere sulla malleabilità e la pervasività della settima arte.
Nello
sfaccettato flusso di immagini dove ad ogni modo Baudelaire mantiene
una percentuale di paternità (la maggioranza delle riprese
scolastiche sono girate da lui), siamo spettatori di tanti eterogenei
approcci messi in campo dai giovani filmmaker in erba, una dimensione
ludica non viene mai meno perché l’attrezzo che maneggiano è pur
sempre una novità, una modalità di vedere (e far vedere) il mondo
agli altri, ma anche nell’amatorialità non manca una presa
abbastanza profonda e abbastanza intima, magari involontaria, però
presente, tangibile, che si riflette nella foto di un nonno appesa
alla parete o in una video-confessione che non si riesce a fare
perché... perché è così, e basta. Le uniche sbavature che non
hanno pienamente incontrato i miei desideri si situano in alcune
sequenze dove i ragazzi seduti intorno ad un tavolo discutono su
questioni “da adulti” come il terrorismo, il razzismo (i
componenti della classe protagonista hanno tutti origini
extra-europee) e la politica, non discuto tale scelta che
nell’economia filmica è anche fruttuosa visto che come spesso
accade le parole dei bambini stupiscono per trasparenza e lucidità
di pensiero, brontolo soltanto perché è un escamotage non troppo
innovativo (penso a Silvano Agosti) che sta un passo indietro
rispetto all’emancipazione esibita dai filmati degli alunni. Un
Film Dramatique è uno di quei
lavori di cervello che non puntano all’emozione superficiale, però
se ascolti attentamente, ecco, sì, se tendi l’orecchio un tump
tump regolare lo senti pure.
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