giovedì 31 agosto 2023

Letters to Max

Come Extinction (2018) di Salomé Lamas che si occupava della Transnistria, anche Letters to Max (2014) di Éric Baudelaire ci fa compiere un viaggio in quel dell’Abcasia, un altro piccolo paese del territorio caucasico non riconosciuto dalle organizzazioni internazionali, ma se la regista portoghese utilizzava un metodo esplicitamente da docufiction, per il collega franco-americano le cose sono un po’ diverse, sebbene comunque il nocciolo concettuale possegga una certa sovrapponibilità. Qui l’approccio scelto è di tipo epistolare, il Max del titolo è Maxim Gvinja, un diplomatico abcaso che per un periodo di tempo divenne anche Ministro, destinatario delle numerose lettere di Baudelaire che compariranno in forma scritta sullo schermo, mentre le risposte del ricevente verranno montate come commento esterno alle immagini che si susseguono in video. Anche se si è in presenza di un dispositivo documentaristico si intravede qui e là la possibilità dell’artificio, a partire dalle missive che pare strano siano riuscite a giungere in un posto che ufficialmente non esiste (la chiusura è in tal senso emblematica: Max, hai mai davvero ricevuto le mie lettere?), inoltre l’intera costruzione dell’opera sembra non seguire la temporalità degli eventi narrati in favore di un unico blocco probabilmente girato in una singola visita. Nulla di male perché il ritrovarsi in una zona indefinibile è il parallelo della nazione che ci viene raccontata, un film fittizio perché immortala una nazione... fittizia, almeno per i parametri geopolitici che governano il mondo, ed è un film vero perché fotografa uno Stato... vero, con un suo tessuto economico (molti i brand occidentali nei negozi), una lingua, una cultura e un’identità. Per tali motivi c’è una prossimità con Extinction, entrambe le vedute, autoriali ed europee, non risolvono la questione, però ce la espongono arrivando a conclusioni simili.

Nessun concreto approfondimento sullo scenario passato dell’Abcasia, la scarsa intraprendenza del regista che non insiste sulla guerra con la Georgia e un pizzico di reticenza da parte di Maxim non schiariscono il cielo dalle nubi che questi conflitti separatisti si trascinano per anni, come è evidente che l’appoggio della Russia non si deve né per uno spirito crocerossino né per convenienze commerciali (cosa mai potrà comprare/esportare la microscopica Abcasia?), ma io sono troppo lontano, nonché completamente all’oscuro, delle suddette dinamiche per cui preferisco accogliere con misurato piacere l’evidenziarsi del piano umano, e sociale, che sale a galla. I riscontri vocali di Max diventano un discorso personale impastato nella realtà vissuta, c’è spazio per riflessioni di ogni tipo, filosofiche (l’essere in un luogo e, nel mentre, essere altrove), storiche (spira della nostalgia per l’epoca sovietica), intime (il divorzio dalla moglie), professionali (la carriera in ascesa con le visite in Nicaragua e Venezuela), e a me, un mosaico di pensieri così strutturato, non dispiace affatto, il motivo, non posso girarci intorno, si colloca nella geografia d’appartenenza, non sarebbe stata la stessa cosa se l’azione si fosse svolta in Canada o in Australia, il fatto di fornirci una panoramica su un luogo dove il 99,9% di noi non metterà mai piede, e, per di più, attraverso un onorevole procedimento stilistico, mi ricorda che il cinema può sostituirsi ai nostri occhi per farci vedere l’inconoscibile, a volte perfino al nostro cuore per farci provare l’inconcepibile, non è il caso di Letters to Max, ma va bene comunque.

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