Come
Extinction (2018) di Salomé
Lamas che si occupava della Transnistria, anche Letters to
Max (2014) di Éric Baudelaire
ci fa compiere un viaggio in quel dell’Abcasia, un altro piccolo
paese del territorio caucasico non riconosciuto dalle organizzazioni
internazionali, ma se la regista portoghese utilizzava un metodo
esplicitamente da docufiction, per il collega franco-americano le
cose sono un po’ diverse, sebbene comunque il nocciolo concettuale
possegga una certa sovrapponibilità. Qui l’approccio scelto è di
tipo epistolare, il Max del titolo è Maxim Gvinja, un diplomatico
abcaso che per un periodo di tempo divenne anche Ministro,
destinatario delle numerose lettere di Baudelaire che compariranno in
forma scritta sullo schermo, mentre le risposte del ricevente
verranno montate come commento esterno alle immagini che si
susseguono in video. Anche se si è in presenza di un dispositivo
documentaristico si intravede qui e là la possibilità
dell’artificio, a partire dalle missive che pare strano siano
riuscite a giungere in un posto che ufficialmente non esiste (la
chiusura è in tal senso emblematica: Max, hai mai davvero
ricevuto le mie lettere?), inoltre l’intera costruzione dell’opera
sembra non seguire la temporalità degli eventi narrati in favore di
un unico blocco probabilmente girato in una singola visita. Nulla di
male perché il ritrovarsi in una zona indefinibile è il parallelo
della nazione che ci viene raccontata, un film fittizio perché
immortala una nazione... fittizia, almeno per i parametri geopolitici
che governano il mondo, ed è un film vero perché fotografa uno
Stato... vero, con un suo tessuto economico (molti i brand
occidentali nei negozi), una lingua, una cultura e un’identità.
Per tali motivi c’è una prossimità con Extinction,
entrambe le vedute, autoriali ed europee, non risolvono la questione,
però ce la espongono arrivando a conclusioni simili.
Nessun
concreto approfondimento sullo scenario passato dell’Abcasia, la
scarsa intraprendenza del regista che non insiste sulla guerra con la
Georgia e un pizzico di reticenza da parte di Maxim non schiariscono
il cielo dalle nubi che questi conflitti separatisti si trascinano
per anni, come è evidente che l’appoggio della Russia non si deve
né per uno spirito crocerossino né per convenienze commerciali
(cosa mai potrà comprare/esportare la microscopica Abcasia?), ma io
sono troppo lontano, nonché completamente all’oscuro, delle
suddette dinamiche per cui preferisco accogliere con misurato piacere
l’evidenziarsi del piano umano, e sociale, che sale a galla. I
riscontri vocali di Max diventano un discorso personale impastato
nella realtà vissuta, c’è spazio per riflessioni di ogni tipo,
filosofiche (l’essere in un luogo e, nel mentre, essere altrove),
storiche (spira della nostalgia per l’epoca sovietica), intime (il
divorzio dalla moglie), professionali (la carriera in ascesa con le
visite in Nicaragua e Venezuela), e a me, un mosaico di pensieri così
strutturato, non dispiace affatto, il motivo, non posso girarci
intorno, si colloca nella geografia d’appartenenza, non sarebbe
stata la stessa cosa se l’azione si fosse svolta in Canada o in
Australia, il fatto di fornirci una panoramica su un luogo dove il
99,9% di noi non metterà mai piede, e, per di più, attraverso un
onorevole procedimento stilistico, mi ricorda che il cinema può
sostituirsi ai nostri occhi per farci vedere l’inconoscibile, a
volte perfino al nostro cuore per farci provare l’inconcepibile,
non è il caso di Letters to Max,
ma va bene comunque.
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