giovedì 3 agosto 2023

El otro día

Il principio pensato da Ignacio Agüero per il suo El otro día (2013) è molto semplice: se tu bussi alla mia porta, io potrò bussare alla tua. Localizziamo la situazione: Santiago del Cile, la casa di Agüero, un attore (lo è stato per Raúl Ruiz), produttore e regista principalmente di documentari, ebbene, questo autore decide di edificare un film casalingo basandolo sull’accidentalità di chi suonerà il campanello dell’abitazione nell’arco di un anno, per farlo piazza una videocamera su un treppiedi alle spalle dell’uscio in modo da riprendere mendicanti, balordi, postini e studentesse che casualmente o volutamente vengono a fargli visita. Il concetto è che, nonostante tali soggetti siano per lui dei perfetti sconosciuti, chiede ad essi se possono accoglierlo nelle loro dimore. Ciò che si crea è allora una dimensione esterna e polifonica, in netta contrapposizione con quella interna e piana proveniente dalla residenza principale, dove si ha una panoramica sociale dei sobborghi della città, piovono storie, tutte o quasi di sofferenze e sacrifici, alle quali Agüero si pone in maniera aperta e curiosa, domandando, stimolando, osservando da vicino questo piccolo intreccio di vite che ogni giorno (… o l’altro) si snoda e si riannoda a pochi passi da dove abita. Nel cinema di reietti o simili se ne sono visti in grande quantità e nell’opera sotto esame non si può dire che risultino particolarmente memorabili, però se si pensa la collocazione che viene data nel dispositivo generale allora sì che arrivano ad assumere una posizione interessante, anche perché va in stretta relazione con quanto scriverò sotto.

Trattandosi di un progetto a bassissimo budget è meglio che chiunque sia in cerca di una spettacolarizzazione prenda altre strade, quando Agüero gira in casa propria abbiamo una riduzione all’osso di qualunque altra eventuale componente filmica, passare in rassegna il soggiorno, la camera o il giardino, significa registrare quegli oggetti quotidiani che ci circondano, dei libri, dei dischi, i mobili, dei quadri (e anche un poster di Nostalgia della luce, 2010), un gatto, degli uccellini e poi una foto: qui scatta l’immersione intima, il racconto personale: la fotografia in bianco e nero ritrae i suoi genitori e avvalendosi di un commento over ecco che fiorisce un’ulteriore narrazione riguardante la sua famiglia. Non c’è bisogno che ve lo dica io di quanto sia fertile il raffronto tra il vissuto nel presente degli eterogenei visitatori ed il flusso di memorie che sgorga dalle parole dell’uomo-Ignacio, il quale, vestendo i panni del demiurgo, imperla il materiale girato con delle dissolvenze marine (una molto bella ci trasporta dolcemente dall’ambiente domestico alla prua di una nave che solca il mare) perché il padre era un navigante, e nella fenditura mnemonica che si dischiude fuoriescono con naturalezza ricordi legati al golpe cileno degli anni ’70, alla madre, al fratello gemello. Chiusura e apertura piacevolmente poetiche con un raggio di sole che va a posarsi sull’istantanea genitoriale, il giusto confine per un film che ha il coraggio, seppur nei limiti dell’inevitabile costruzione, di affidarsi al destino, e un cinema che entra in punta di piedi nell’esistenza altrui, che procede abbandonandosi al caso, che abbraccia racconti già dotati di una vita indipendente e che quindi non li fabbrica seguendo formine prestabilite, avrà sempre il mio incondizionato appoggio, e spero tanto anche il vostro.

Nessun commento:

Posta un commento