Mi interessa però circoscrivere La última tierra non tanto da un punto di vista categoriale, dell’etichetta, quanto nella collocazione che ha dentro al sistema-cinema, perché riflettendo su ciò ho fatto a me medesimo delle domande. “Sistema” è la parola chiave, questo, sono pronto ad essere smentito ma a fine visione ho percepito la seguente impressione, è un prodotto da Festival, stop. È passato a Rotterdam e a Torino, ha raccolto diverse candidature (oltre che un premio proprio in Olanda) e immagino che abbia fatto compiacere i critici della loro sagacia mentre assistevano alle lunghe parentesi meditative. Tutto lecito e tutto inattaccabile, se non fosse che di oggetti festivalieri, francamente, ne abbiamo fin sopra i capelli. Perché poi si verifica il rischio che un titolo all’apparenza intransigente conformandosi ad altri suoi simili divenga quasi reazionario, e la cifra anticonvenzionale, di riflesso, si fa solo patina esterna in procinto di essere grattata via da qualche proiezione davvero profonda, davvero immersiva, davvero sanguinante. Non vorrei apparire un cazzo di saputello che snobba lo sforzo di un giovane regista perché il suo lavoro è passato attraverso rassegne cinematografiche non sufficientemente sotterranee (e Rotterdam ad ogni modo non è una roba da tappeti rossi), il fatto è che la cornice espositiva conta parecchio (credo che il discorso valga anche per l’arte pittorica e l’arte concettuale) e in taluni casi vi è una ricaduta anche sull’esibizione in sé. Allora, se si vuole prendere atto di un’eccellenza in La última tierra, l’impianto sonoro è dove direzionarsi, del resto Lamar è un professionista del settore avendo collaborato con Ricardo Alves Jr. per Tremor (2013) e con João Salaviza per Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos (2018 – altro film dove ho patito il taglio da mostra... starò mica diventando allergico?).
Grand Tour - Miguel Gomes
2 ore fa
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