giovedì 17 agosto 2023

La última tierra

La última tierra (2016) si apre con un cerino e si chiude in un incendio, nel mezzo c’è un lungo rituale luttuoso che l’esordiente paraguayano Pablo Lamar riprende con fare da autore affermato, la caratteristica principe del film è una dilatazione dei tempi, solo che la prima sequenza dura tredici minuti e ha soltanto un cambio di inquadratura, è cinema contemplativo? Mmm verrebbe da dire sì perché c’è una forte componente naturalistica che viene osservata in religioso silenzio, ma verrebbe da dire anche no perché comunque si tratta di un’opera che ha una precisa impostazione finzionale con attori e – seppur risicata al minimo – anche una trama. Per cui, combattuti nel tentativo di fornire un’identità, elenchiamo gli elementi che comunque dovrebbero poter essere letti come positivi: in cima, la sfrontatezza di Lamar che azzerando i dialoghi detta un ritmo iper-compassato fruibile solo da chi ha molta pazienza, in seconda battuta l’apparato estetico brilla di una sua classe, prendiamo l’incipit dalla fotografia ambrata, il tenue chiarore della candela, il capezzale caravaggesco, sicuramente non male, e ancora meglio la scena successiva con una saturazione dello schermo di luce abbacinante, dopo diciamo che si rientra abbastanza nei ranghi, pur rimanendo su un buon livello non ho trovato niente con lo stesso impatto del prologo funereo, neanche il finale con la casa divorata dalle fiamme. Lamar deve essersi studiato bene i lavori di alcuni suoi colleghi continentali (Reygadas continua ad influenzare le nuove leve) traendone il gusto per l’originarietà e la finitezza delle cose, quel testacoda che va dal molto piccolo (due vecchietti e una capanna) all’infinitamente grande (la morte, of course). Di esempi ce ne sono a iosa, lascio a voi il giochino della comparazione.

Mi interessa però circoscrivere La última tierra non tanto da un punto di vista categoriale, dell’etichetta, quanto nella collocazione che ha dentro al sistema-cinema, perché riflettendo su ciò ho fatto a me medesimo delle domande. “Sistema” è la parola chiave, questo, sono pronto ad essere smentito ma a fine visione ho percepito la seguente impressione, è un prodotto da Festival, stop. È passato a Rotterdam e a Torino, ha raccolto diverse candidature (oltre che un premio proprio in Olanda) e immagino che abbia fatto compiacere i critici della loro sagacia mentre assistevano alle lunghe parentesi meditative. Tutto lecito e tutto inattaccabile, se non fosse che di oggetti festivalieri, francamente, ne abbiamo fin sopra i capelli. Perché poi si verifica il rischio che un titolo all’apparenza intransigente conformandosi ad altri suoi simili divenga quasi reazionario, e la cifra anticonvenzionale, di riflesso, si fa solo patina esterna in procinto di essere grattata via da qualche proiezione davvero profonda, davvero immersiva, davvero sanguinante. Non vorrei apparire un cazzo di saputello che snobba lo sforzo di un giovane regista perché il suo lavoro è passato attraverso rassegne cinematografiche non sufficientemente sotterranee (e Rotterdam ad ogni modo non è una roba da tappeti rossi), il fatto è che la cornice espositiva conta parecchio (credo che il discorso valga anche per l’arte pittorica e l’arte concettuale) e in taluni casi vi è una ricaduta anche sull’esibizione in sé. Allora, se si vuole prendere atto di un’eccellenza in La última tierra, l’impianto sonoro è dove direzionarsi, del resto Lamar è un professionista del settore avendo collaborato con Ricardo Alves Jr. per Tremor (2013) e con João Salaviza per Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos (2018 – altro film dove ho patito il taglio da mostra... starò mica diventando allergico?).

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