mercoledì 9 agosto 2023

Blue Bird

Blue Bird (2011) e Lucifer (2014) sono due film che chiunque definirebbe diversi, è troppo lo scarto che si ha sia al primo impatto che all’inoltrarsi nelle rispettive visioni, detto ciò, tale coppia di pellicole condivide un simile substrato che è prettamente tecnico, in entrambe le opere Gust Van den Berghe lavora sul formato di proiezione, nel titolo ambientato in Sud America tutto si svolge dentro ad un confine rotondo, una botola, un mirino, in quello togolese, ovvero questo di cui abbiamo iniziato a parlare, l’aspect ratio è stata coniata dal regista stesso col nome überscope, in pratica si ha un rimpicciolimento dello schermo che comunque mantiene una forma rettangolare, a conti fatti ambedue le opzioni sembrano impostare una distanza tra chi guarda e l’oggetto guardato, nel senso che le sagome in video paiono simulare il recinto visivo dato da un cannocchiale o da qualche tipo di visore, come se loro fossero là e noi fossimo qua, cosa che in effetti è tale, rimane da capire se degli espedienti del genere siano effettivamente funzionali o se si tratta di meri vezzi autoriali. Inoltre L’uccellino blu ha un’altra decisiva peculiarità in ambito estetico: è blu, anzi azzurrognolo, un velo carta zucchero si distende sulle immagini, e quindi che accade? Nel concreto filmico nulla perché la storia sarebbe andata avanti anche con una tinteggiatura canonica, piuttosto è la percezione che se ne ha a sbalestrarci, perché pur trovandoci in Africa, tra cespugli e casette di fango, quest’organza bluastra muta i connotati della realtà, la luce polare-minerale trasporta in un territorio liminale, indefinibile, ma di sicuro non un territorio africano. Piaccia o meno (e io stesso non posso dire che mi abbia fatto impazzire) questa sì che è una scelta adeguata per la piega che prenderà la vicenda. Leggere, di seguito, per credere.

Non sarebbe così sbagliato intendere Blue Bird un Munyurangabo (2007) irrorato di realismo magico, il viaggio lungo un giorno compiuto dai bambini alla ricerca del volatile perduto è un percorso che segue i ritmi della fiaba, lo fa con passo felpato, senza calcare troppo la mano, però più la narrazione si sviluppa e più si ha l’impressione di stare dentro ad una favola. Gli elementi che tengono il film ancorato ad una sorta di reale sono dati dal tasso di verità sprigionato dal set desertico, dagli esseri umani reclutati per la prima e ultima volta “attori”, dal folklore, dall’eccezionalità di essere in Togo al fianco di due bimbi dalla pancia gonfia e le gambe secche. Non ci sono esplosioni di fantasia, piuttosto con un procedimento che molto alla lontana ricorda un po’ Weerasethakul, vengono schiusi dei micro-sipari che danno su altri mondi, l’incontro con i nonni defunti per la naturalezza con cui avviene è apprezzabile, il contrario dell’agguato da parte della tribù incarognita col papà falegname che invece sa di forzatura. E quindi Bafiokadié e Tené camminano, giocano, si divertono, imparano, si spaventano, piangono: vivono. Senza girarci attorno il succo è: anche se raffigurato nello spazio di ventiquattro ore, l’itinerario è esistenziale nonché formativo, aspetto sottolineato incautamente con la scena dei vestiti che d’improvviso sono diventati stretti.

Ecco, penso e spero che le parole del sottoscritto siano state sufficienti ad inquadrare il lavoro del belga (girato a meno di trent’anni...), non un esemplare di cinema in cui riporre grandi speranze, abbastanza “facile” sfarinando via la patina esterna e magari anche leggermente ingenuo in alcuni frangenti, però il suo voler aspirare ad una certa autorialità con una discreta sfrontatezza me lo fa apparire simpatico (forse la presenza dei due marmocchi incide sulla mia benevolenza) e meno fragile di come probabilmente è (però la sequenza con l’orda di ragazzetti non ancora nati ha un perché e un percome), sono ad ogni modo le prove generali in vista di una maturazione professionale che si verificherà nel successivo e già menzionato Lucifer, un film che invito caldamente a vedere.

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