Ada Kaleh
era il nome di un’isoletta romena che nel 1970 fu sommersa dalle
acque del Danubio. Di primo acchito non sembrano esserci collegamenti
diretti tra questo episodio storico e l’Ada Kaleh
(2018) di Helena Wittmann, però essendo un cortometraggio così
etereo, così impalpabile, è possibile che la sua essenza possa
infiltrarsi ovunque e annettersi a qualunque cosa o concetto. Una
tale composizione gassosa che può penetrare anche nell’interstizio
più angusto è il classico esempio di pregio che al contempo fa
anche da limite. Sul fatto che la regista non dia alcuna coordinata
al punto di rendere il precedente Drift
(2017) un film leggibile in confronto a quello sotto esame la
considero comunque una nota positiva, viceversa al cospetto di
oggetti talmente informi da non poter essere afferrati sorge il
dubbio se non si poteva fare (e dare) di più. Dire che la Wittmann
abbia girato un corto sullo spazio (ma d’altronde quale film non se
ne occupa?) è un’affermazione condivisibile, a riprova di ciò la
manovra tecnica, nonché l’unica, a cui assistiamo è la
ripetizione di un movimento a mezzaluna (non mi pare si compia mai
una panoramica a 360°), di un carrello laterale-semi circolare, dove
la mdp, posta in un luogo casalingo riprende quanto la circonda.
Siamo in un appartamento (forse) abitato da studenti, più che
disordinato lo definirei vissuto, pieno di soprammobili, di oggetti,
di vestiti, di piante ornamentali, le persone che lo abitano appaiono
un corredo della casa stessa, quasi non si vedono, con
l’approssimarsi della fine dormono un sonno profondo.
Di
e da Ada Kaleh non
sappiamo altro a parte un prologo che si disallinea dal resto. Niente
giravolta visiva ma il dettaglio di un muro le cui croste di pittura
rimaste attaccate assomigliano ad una cartina geografica della Terra,
a contorno un commento off in cinese o un’altra lingua orientale
parla ripetutamente di “loro” e di dove potrebbero andare
immaginando Paesi e luoghi lontani. È poco per dare nerbo al
tentativo di interpretazione, ma l’imbeccata su una ricerca della
spazialità parrebbe una strada percorribile, c’è nella proiezione
mentale dei coinquilini verso un altrove e c’è nelle azioni
concrete della Wittmann che calibra il suo occhio su traiettorie che
squadernano la reale dimensione domestica. Ora, sempre andandoci
cauti, sembrerebbe che la conclusione faccia convergere l’ambiente,
e quindi lo spazio, esterno con quello interno, il procedimento usato
è fin immediato: ad un vociare confuso viene alzato il volume come
se fosse avvenuta una penetrazione, poi l’immagine si sofferma
sulla finestra, qui si compie la piena fusione, in un frame coesiste
l’esterno (il palazzo, l’albero) e l’interno (il riflesso
dell’uomo sdraiato a letto). Che cosa ci guadagniamo da una visione
del genere? Non lo so, ma il cinema non è compravendita sicché va
bene anche viverlo in maniera disequilibrata, purché si annusi della
fascinazione, della profondità, dello studio, che per chi scrive in
Ada Kaleh non mancano.
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