mercoledì 16 agosto 2023

Ada Kaleh

Ada Kaleh era il nome di un’isoletta romena che nel 1970 fu sommersa dalle acque del Danubio. Di primo acchito non sembrano esserci collegamenti diretti tra questo episodio storico e l’Ada Kaleh (2018) di Helena Wittmann, però essendo un cortometraggio così etereo, così impalpabile, è possibile che la sua essenza possa infiltrarsi ovunque e annettersi a qualunque cosa o concetto. Una tale composizione gassosa che può penetrare anche nell’interstizio più angusto è il classico esempio di pregio che al contempo fa anche da limite. Sul fatto che la regista non dia alcuna coordinata al punto di rendere il precedente Drift (2017) un film leggibile in confronto a quello sotto esame la considero comunque una nota positiva, viceversa al cospetto di oggetti talmente informi da non poter essere afferrati sorge il dubbio se non si poteva fare (e dare) di più. Dire che la Wittmann abbia girato un corto sullo spazio (ma d’altronde quale film non se ne occupa?) è un’affermazione condivisibile, a riprova di ciò la manovra tecnica, nonché l’unica, a cui assistiamo è la ripetizione di un movimento a mezzaluna (non mi pare si compia mai una panoramica a 360°), di un carrello laterale-semi circolare, dove la mdp, posta in un luogo casalingo riprende quanto la circonda. Siamo in un appartamento (forse) abitato da studenti, più che disordinato lo definirei vissuto, pieno di soprammobili, di oggetti, di vestiti, di piante ornamentali, le persone che lo abitano appaiono un corredo della casa stessa, quasi non si vedono, con l’approssimarsi della fine dormono un sonno profondo.

Di e da Ada Kaleh non sappiamo altro a parte un prologo che si disallinea dal resto. Niente giravolta visiva ma il dettaglio di un muro le cui croste di pittura rimaste attaccate assomigliano ad una cartina geografica della Terra, a contorno un commento off in cinese o un’altra lingua orientale parla ripetutamente di “loro” e di dove potrebbero andare immaginando Paesi e luoghi lontani. È poco per dare nerbo al tentativo di interpretazione, ma l’imbeccata su una ricerca della spazialità parrebbe una strada percorribile, c’è nella proiezione mentale dei coinquilini verso un altrove e c’è nelle azioni concrete della Wittmann che calibra il suo occhio su traiettorie che squadernano la reale dimensione domestica. Ora, sempre andandoci cauti, sembrerebbe che la conclusione faccia convergere l’ambiente, e quindi lo spazio, esterno con quello interno, il procedimento usato è fin immediato: ad un vociare confuso viene alzato il volume come se fosse avvenuta una penetrazione, poi l’immagine si sofferma sulla finestra, qui si compie la piena fusione, in un frame coesiste l’esterno (il palazzo, l’albero) e l’interno (il riflesso dell’uomo sdraiato a letto). Che cosa ci guadagniamo da una visione del genere? Non lo so, ma il cinema non è compravendita sicché va bene anche viverlo in maniera disequilibrata, purché si annusi della fascinazione, della profondità, dello studio, che per chi scrive in Ada Kaleh non mancano.

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