Nel
1990, l’anno di Filha da Mãe,
non so come fosse la scena portoghese, ipotizzo che il totem de
Oliveira o
gente come Monteiro o Botelho
dettassero le linee guida per tutti i giovani cineasti con passaporto
lusitano, ma, appunto, è giusto una mia ipotesi poiché poco o nulla
so di quegli autori e di quel periodo storico, d’inverso posso
iniziare ad argomentare sul film facendo un paragone con le
produzioni recenti di João Canijo e constatare subito che nel suo
secondo lungometraggio le cortocircuitazioni tra realtà e finzione
non sembrano essere il tema portante della faccenda (anche se con il
mestiere che fa la madre si possono fare dei ragionamenti in merito),
tuttavia siamo al cospetto di un apparato drammaturgico che, in
embrione, ricorda un po’ Blood of My Blood
(2011), non tanto per i viscosi intrecci sentimentali (e uno è
nuovamente ad un passo dall’incesto), quanto per l’utilizzo di un
registro che illusoriamente veste un abito soapoperistico quando
invece sotto, nella nudità, si dimostra un’opera ben più “sporca”
di ciò che passerebbe in televisione. Rimane un oggetto di scrittura
(a proposito, tra gli sceneggiatori figurano anche Teresa Villaverde
e addirittura Olivier Assayas) e per questo tende, in particolare
nella prima parte, ad andare in overdose di informazioni, i
personaggi in scena saranno circa una decina e le loro
raffigurazioni, le interazioni che li coinvolgono, l’illustrazione
di chi-ama/odia-chi, sono tutti procedimenti che si incanalano in un
pentolone che contiene vivacità (no, non gliela si può negare) e
confusione (idem). Vieppiù che la recitazione di Maria, la
protagonista, è volutamente sopra le righe, è umorale, accentua la
mimica facciale, tiene comportamenti strambi tra il giocoso e non,
anche gli altri attori si impegnano ad impersonare ruoli quasi
monodimensionali, il delinquentello, l’amante, la madre-diva, però
un tale ecosistema filmico, seppur curioso nonché seccante per i
meno pazienti, rientra nel discorso di alterare il dispositivo del
racconto, c’è sempre la sottile percezione che vi sia qualcosa di
sghembo (notate le conversazioni, in molte chi parla non guarda in
faccia l’interlocutore ma oltre, magari al di là della mdp), e
quindi, almeno per me, di interessante.
Una
volta riusciti a districarci dalla piccola giungla amorosa a cui si
aggiunge una spolverata crime, il film pian piano scopre le sue
carte. Il centro della storia diviene il rapporto, ovviamente
conflittuale, tra mamma e figlia, il legame, rimbombante nella
rappresentazione teatrale dove proprio il genitore è in prima linea
sul palco, si arroventa con la presenza di Álvaro, l’ex marito di
ritorno dal Brasile che non sa se è il padre di Maria o meno
(“potrebbe essere tua figlia...”). Canijo, proprio nel momento
apicale della pellicola dove si verifica un evento mortuario, invece
di approfondire la possibile faglia funebre, cambia pelle alla
vicenda compiendo un’intrigante estromissione della materia
concreta dalla trama fin lì osservata. Lo spostamento fisico di
Maria da Lisbona alla casa del patrigno si rivela altresì un
passaggio mentale ed emotivo che rende Filha
da Mãe,
da quell’istante in avanti, dannatamente più astratto di come era
in precedenza. E c’è di che goderne. Già da principio si
avvertiva una precisa attenzione ai colori (il rosso, non a caso,
domina), con l’ingresso nell’abitazione-atelier i rimandi
cromatici si moltiplicano e, inoltre, si geometrizzano (la
verticalità delle pareti divisorie pare, in nuce, simile a quella di
Sangue do Meu Sangue),
la dimensione in cui approda Maria, peraltro maggiormente alienata da
un maialino che scorrazza tra le stanze, è realmente separata da un
contesto che comunque partiva col piede sull’acceleratore dello
straniamento, è qui che il regista cammina sul filo del rasoio
ammiccando ad una relazione consanguinea alla quale però non
permette di avere piena catarsi. Con coerenza, senza didascalia,
attraverso un’impostazione visiva che, contestualizzando, riesce
tutt’oggi a fare una bella impressione, FdM
,
escludendo l’imbottigliamento introduttivo, è cinema autoriale che
vale la pena andare a ripescare, e così capire meglio del perché il
Portogallo sia da anni leader assoluto nel settore.
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