Una volta riusciti a districarci dalla piccola giungla amorosa a cui si aggiunge una spolverata crime, il film pian piano scopre le sue carte. Il centro della storia diviene il rapporto, ovviamente conflittuale, tra mamma e figlia, il legame, rimbombante nella rappresentazione teatrale dove proprio il genitore è in prima linea sul palco, si arroventa con la presenza di Álvaro, l’ex marito di ritorno dal Brasile che non sa se è il padre di Maria o meno (“potrebbe essere tua figlia...”). Canijo, proprio nel momento apicale della pellicola dove si verifica un evento mortuario, invece di approfondire la possibile faglia funebre, cambia pelle alla vicenda compiendo un’intrigante estromissione della materia concreta dalla trama fin lì osservata. Lo spostamento fisico di Maria da Lisbona alla casa del patrigno si rivela altresì un passaggio mentale ed emotivo che rende Filha da Mãe, da quell’istante in avanti, dannatamente più astratto di come era in precedenza. E c’è di che goderne. Già da principio si avvertiva una precisa attenzione ai colori (il rosso, non a caso, domina), con l’ingresso nell’abitazione-atelier i rimandi cromatici si moltiplicano e, inoltre, si geometrizzano (la verticalità delle pareti divisorie pare, in nuce, simile a quella di Sangue do Meu Sangue), la dimensione in cui approda Maria, peraltro maggiormente alienata da un maialino che scorrazza tra le stanze, è realmente separata da un contesto che comunque partiva col piede sull’acceleratore dello straniamento, è qui che il regista cammina sul filo del rasoio ammiccando ad una relazione consanguinea alla quale però non permette di avere piena catarsi. Con coerenza, senza didascalia, attraverso un’impostazione visiva che, contestualizzando, riesce tutt’oggi a fare una bella impressione, FdM , escludendo l’imbottigliamento introduttivo, è cinema autoriale che vale la pena andare a ripescare, e così capire meglio del perché il Portogallo sia da anni leader assoluto nel settore.
domenica 27 agosto 2023
Filha da Mãe
Nel
1990, l’anno di Filha da Mãe,
non so come fosse la scena portoghese, ipotizzo che il totem de
Oliveira o
gente come Monteiro o Botelho
dettassero le linee guida per tutti i giovani cineasti con passaporto
lusitano, ma, appunto, è giusto una mia ipotesi poiché poco o nulla
so di quegli autori e di quel periodo storico, d’inverso posso
iniziare ad argomentare sul film facendo un paragone con le
produzioni recenti di João Canijo e constatare subito che nel suo
secondo lungometraggio le cortocircuitazioni tra realtà e finzione
non sembrano essere il tema portante della faccenda (anche se con il
mestiere che fa la madre si possono fare dei ragionamenti in merito),
tuttavia siamo al cospetto di un apparato drammaturgico che, in
embrione, ricorda un po’ Blood of My Blood
(2011), non tanto per i viscosi intrecci sentimentali (e uno è
nuovamente ad un passo dall’incesto), quanto per l’utilizzo di un
registro che illusoriamente veste un abito soapoperistico quando
invece sotto, nella nudità, si dimostra un’opera ben più “sporca”
di ciò che passerebbe in televisione. Rimane un oggetto di scrittura
(a proposito, tra gli sceneggiatori figurano anche Teresa Villaverde
e addirittura Olivier Assayas) e per questo tende, in particolare
nella prima parte, ad andare in overdose di informazioni, i
personaggi in scena saranno circa una decina e le loro
raffigurazioni, le interazioni che li coinvolgono, l’illustrazione
di chi-ama/odia-chi, sono tutti procedimenti che si incanalano in un
pentolone che contiene vivacità (no, non gliela si può negare) e
confusione (idem). Vieppiù che la recitazione di Maria, la
protagonista, è volutamente sopra le righe, è umorale, accentua la
mimica facciale, tiene comportamenti strambi tra il giocoso e non,
anche gli altri attori si impegnano ad impersonare ruoli quasi
monodimensionali, il delinquentello, l’amante, la madre-diva, però
un tale ecosistema filmico, seppur curioso nonché seccante per i
meno pazienti, rientra nel discorso di alterare il dispositivo del
racconto, c’è sempre la sottile percezione che vi sia qualcosa di
sghembo (notate le conversazioni, in molte chi parla non guarda in
faccia l’interlocutore ma oltre, magari al di là della mdp), e
quindi, almeno per me, di interessante.
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