Tinka
Menkes, come nell’esordio The Great Sadness of Zohara
(1983), viene reclutata dalla
sorella Nina per essere al centro di un film instabile e discontinuo,
un’esplorazione schizzata nella vita e nella mente di Ida, una
prostituta di Los Angeles invischiata suo malgrado in un caso di
omicidio. Magdalena Viraga
(1986), scosso da un vento anarchico dal primo all’ultimo frame,
mette in atto lo stato di ingabbiamento, sia fisico che mentale,
vissuto dalla protagonista, per farlo alterna la narrazione tra i due
piani temporali, il senso claustrofobico emerge soprattutto durante
le riprese dei rapporti sessuali, una sequela di coiti glaciali dove
Tinka è totalmente passiva sotto il cliente di turno e dove Nina
riprende la scena disinteressandosi di ogni possibile risvolto
pruriginoso per concentrarsi solo sull’espressione spenta e
appassita della sua attrice, questa ricorsività degli accoppiamenti
polari fornisce al film un ritmo che definirei quasi autistico se non
robotico, impressione forse accentuata da certe conversazioni nelle
quali alcune linee di dialogo vengono ripetute in maniera anomala,
quasi ossessiva. Tutto ciò riguarda il prima,
ovvero quanto accade in precedenza all’assassinio, il dopo
(ma non vi è una distinzione razionale, le immagini si accavallano,
si anticipano e si rincorrono tramortendo lo spettatore) spinge sul
concetto di prigione mostrando effettivamente Ida dietro le sbarre
(ma è una cella un po’ strana con un grosso crocefisso lì a
svettare) maltrattata di sovente dai secondini. In altre mani
americane MV sarebbe
potuto diventare un crime senza infamia e senza lode imperniato sul
delitto e poco altro, passando invece sotto l’ala protettrice della
sacerdotessa Menkes il film si ammala di una febbre rossa,
un’alterazione benaccetta di forme e strutture.
Difettoso
per tutti i difetti che si possono rintracciare in un lavoro
giovanile lo sarà anche, però è piuttosto manifesta l’indole di
un’autrice che non si vuole sedere e imbeve la propria creatura di
un immaginario suadente, di sicuro femminile (in Phantom Love [2007] ritorneranno
prepotenti questi echi muliebri), tangente il Mistero della Donna
impersonificata da una Maddalena moderna, e altrettanto di sicuro
religioso perché c’è una chiara insistenza su una dimensione
cristiana. Il mix, se trasportato negli anni ’80, mi è sembrato
parecchio convincente e non agilmente esauribile ad una visione
superficiale anche perché viene aumentato il carico della
suggestione con una ricostruzione del misfatto a sua volta
frammentata, irrazionale nel rivelarsi con l’apparizione di una
tizia nuda che lanciandoci in una interpretazione potrebbe essere la
proiezione psichica di Ida, e surreale con l’alibi che la Nostra
asserisce, una matassa di viscoso e organico sangue mestruale. E poi
la Menkes a riprova di stare a suo agio nei panni di fattucchiera, sa
come colpire l’occhio disseminando la pellicola di istantanee dal
forte impatto, l’incipit ardente è un indizio che al di là
dell’assonanza con la palma di Queen of Diamonds
(1991) diventa fiammeggiante conferma con l’inaspettata nonché
eccellente sequenza dell’“i am a witch” dentro la chiesa, e
parimenti i confronti con l’amica-collega a bordo piscina o i flash
dove Ida corre e urla lungo un prato sono le note che arricchiscono
uno spartito più alchemico che musicale. Quindi, sappiate che: Nina
Menkes incontra i miei favori.
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