sabato 12 agosto 2023

Magdalena Viraga

Tinka Menkes, come nell’esordio The Great Sadness of Zohara (1983), viene reclutata dalla sorella Nina per essere al centro di un film instabile e discontinuo, un’esplorazione schizzata nella vita e nella mente di Ida, una prostituta di Los Angeles invischiata suo malgrado in un caso di omicidio. Magdalena Viraga (1986), scosso da un vento anarchico dal primo all’ultimo frame, mette in atto lo stato di ingabbiamento, sia fisico che mentale, vissuto dalla protagonista, per farlo alterna la narrazione tra i due piani temporali, il senso claustrofobico emerge soprattutto durante le riprese dei rapporti sessuali, una sequela di coiti glaciali dove Tinka è totalmente passiva sotto il cliente di turno e dove Nina riprende la scena disinteressandosi di ogni possibile risvolto pruriginoso per concentrarsi solo sull’espressione spenta e appassita della sua attrice, questa ricorsività degli accoppiamenti polari fornisce al film un ritmo che definirei quasi autistico se non robotico, impressione forse accentuata da certe conversazioni nelle quali alcune linee di dialogo vengono ripetute in maniera anomala, quasi ossessiva. Tutto ciò riguarda il prima, ovvero quanto accade in precedenza all’assassinio, il dopo (ma non vi è una distinzione razionale, le immagini si accavallano, si anticipano e si rincorrono tramortendo lo spettatore) spinge sul concetto di prigione mostrando effettivamente Ida dietro le sbarre (ma è una cella un po’ strana con un grosso crocefisso lì a svettare) maltrattata di sovente dai secondini. In altre mani americane MV sarebbe potuto diventare un crime senza infamia e senza lode imperniato sul delitto e poco altro, passando invece sotto l’ala protettrice della sacerdotessa Menkes il film si ammala di una febbre rossa, un’alterazione benaccetta di forme e strutture.

Difettoso per tutti i difetti che si possono rintracciare in un lavoro giovanile lo sarà anche, però è piuttosto manifesta l’indole di un’autrice che non si vuole sedere e imbeve la propria creatura di un immaginario suadente, di sicuro femminile (in Phantom Love [2007] ritorneranno prepotenti questi echi muliebri), tangente il Mistero della Donna impersonificata da una Maddalena moderna, e altrettanto di sicuro religioso perché c’è una chiara insistenza su una dimensione cristiana. Il mix, se trasportato negli anni ’80, mi è sembrato parecchio convincente e non agilmente esauribile ad una visione superficiale anche perché viene aumentato il carico della suggestione con una ricostruzione del misfatto a sua volta frammentata, irrazionale nel rivelarsi con l’apparizione di una tizia nuda che lanciandoci in una interpretazione potrebbe essere la proiezione psichica di Ida, e surreale con l’alibi che la Nostra asserisce, una matassa di viscoso e organico sangue mestruale. E poi la Menkes a riprova di stare a suo agio nei panni di fattucchiera, sa come colpire l’occhio disseminando la pellicola di istantanee dal forte impatto, l’incipit ardente è un indizio che al di là dell’assonanza con la palma di Queen of Diamonds (1991) diventa fiammeggiante conferma con l’inaspettata nonché eccellente sequenza dell’“i am a witch” dentro la chiesa, e parimenti i confronti con l’amica-collega a bordo piscina o i flash dove Ida corre e urla lungo un prato sono le note che arricchiscono uno spartito più alchemico che musicale. Quindi, sappiate che: Nina Menkes incontra i miei favori.

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