lunedì 14 agosto 2023

The Raft

Non amo particolarmente quegli articoli in cui nell’analisi di un film ci si dilunga in una banale descrizione dello stesso, ma per Flotten (2018) devo contravvenire ai miei gusti di lettore perché altrimenti non saprei come fare per invogliarvi a vedere questo documentario, e direi che la cosa migliore è iniziare da un numero, il 1973, anno in cui Santiago Genovés, un antropologo messicano, decise, a seguito di una brutta vicenda a bordo di un aereo dirottato da dei terroristi, di mettere in pratica un curioso esperimento così fatto: partire dalle Canarie per arrivare in Messico attraversando l’Atlantico a bordo di un’imbarcazione [1] priva di motore arruolando un equipaggio volutamente variegato e oculatamente sbilanciato: sei donne (per far sì che il potere decisionale fosse in mani femminili) e cinque uomini, tutti provenienti da paesi diversi in modo da ricreare una micro-bolla sociale capace di rappresentare in scala ridotta la varietà del mondo esterno. L’oggetto di studio di  Genovés era il concetto di violenza e come essa poteva svilupparsi all’interno di un gruppo chiuso e isolato dal resto dell’umanità, per portare avanti il test durante la navigazione lo scienziato sottopose la ciurma a dei questionari che inizialmente lasciò segreti e che successivamente rese pubblici dal momento che secondo lui, dopo mesi di viaggio, a bordo stava iniziando a serpeggiare un po’ di noia. Per Genovés il seme della brutalità poteva nascere dalla tensione sessuale, motivo per cui scelse appositamente giovani ragazzi e ragazze dall’aspetto attraente, in effetti vi furono dei contatti ravvicinati tra i partecipanti senza che però accadessero episodi efferati legati a gelosia o sentimenti simili. Col passare delle settimane Genovés si rese conto che le sue “cavie” avevano raggiunto un equilibrio che pareva non poter rompersi durante il tragitto oceanico, sicché ad un certo punto stabilì che sarebbe stato lui l’elemento che avrebbe portato il caos sulla nave, e in effetti una sua presa di posizione scatenò una certa ira nei suoi riguardi (certificata dalle testimonianze nel presente), tuttavia le dinamiche e le connessioni instauratesi nella piccola comunità galleggiante non si spezzarono e la bagnarola giunse a destinazione come preventivato. [2]

Quarantacinque anni dopo il regista svedese Marcus Lindeen mette nuovamente mano alla storia che ho raccontato sopra e convoca i sette superstiti della spedizione per elaborare un quadro calato nella contemporaneità. Lindeen si divide tra cinema e teatro, e la cosa si vede perché riproduce in legno la Acali al centro di un palco circondato dal buio. Qui i sopravvissuti si aggirano nello scheletro del battello discorrendo e ricordando l’incredibile esperienza che hanno vissuto, nel mentre, noi, assistiamo alla messa in serie dei filmati originali (presumo opportunamente risonorizzati) che ci fa vedere come era la vita da imbarcati. Il principale intervento di Lindeen sulle preziose immagini d’archivio è stato quello di inserire il commento di un narratore in prima persona basato sugli scritti lasciati da Santiago Genovés. Ecco allora il duplice obiettivo di The Raft: innanzitutto far conoscere la questione al pubblico (in Italia era anche uscito un libro che si può trovare facilmente su eBay) e subito dopo porre a confronto l’ieri con l’oggi usufruendo delle voci e delle emozioni dei protagonisti. Il rimpallo tra le memorie delle donne sedute intorno a un tavolo (solo un uomo giapponese è ancora vivo ma non è mai presente nelle discussioni con le compagne), la traccia narrativa dalle sembianze diaristiche e le parti di repertorio, producono un bel mix che si osserva con piacere e interesse perché la ricerca di Genovés si dimostra ancora attuale e viva, sia nelle parole di Rachida e socie sia nelle nostre riflessioni.

Sì, la sociologia applicata al cinema (sempre al di fuori della finzione che è un territorio ad alto rischio didascalico), o perlomeno applicata con le modalità utilizzate da Lindeen, funziona e fertilizza il pensiero che sottende l’opera. Dove sta la violenza? Me lo sono chiesto anche io, e credo che replicare “è nell’essere umano”, seppur generalizzando un goccio, possa venir considerata una risposta accettabile, l’erroneo e forse pessimistico preconcetto di Genovés lo ha condotto su una strada sbagliata, lui riteneva a priori che l’esperimento avrebbe comunque portato i soggetti in scena ad un comportamento conflittuale, invece, anche nei momenti di maggiore stress (lo scampato incidente con la portacontainer), il gruppo non si è mai disunito. Apparentemente potrebbe sembrare che il risultato finale sia stato un mezzo fallimento, in realtà, come giustamente sottolinea Fe durante il dibattito conclusivo, sulla Acali non si sono trovati i principi dell’aggressività o della ferocia bensì una risposta fatta di fratellanza, convivenza e vera pace tra persone differenti per cultura e nazionalità, un messaggio che forse vi sembrerà scontato ma che, assicuro, arrivando alla fine e brillando negli occhi lucidi di queste signore, tocca perfino una discreta intensità emotiva. Se fossi una casa di distribuzione cinematografica non ci penserei neanche due secondi a comprare i diritti di Flotten.    
___________
[1] Nel film, e nel titolo, il natante viene chiamato in inglese “raft”. La traduzione italiana, che pare essere zattera o chiatta, non mi sembra rispecchi in toto l’effettiva natura della barca. Non so quale sia il nome ufficiale, ma guardando il poster o le foto rintracciabili in rete potrete sicuramente farvi un’idea più precisa.

[2] Non c’entra troppissimo, però la faccenda della Acali non assomiglia per sommi capi alla trama di Chevalier [2015] della Tsangari?

Nessun commento:

Posta un commento