In
Lucifer (2014)
di Gust Van den Berghe tutto è semplicemente magnifico, e quando si
dice tutto si
intende davvero una totalità estesa che parte dalla componente
tecnica e si riflette in quella tematica, è un affastellarsi di
anelati si:
si trova una profondità nella visione che avevamo lasciato, boh, in
Japón
(2002)? O
in qualche altro (raro e prezioso) film, si respira un’aria
biblica, apocalittica, mistica che credo piacerebbe al miglior
Dumont, si vede, soprattutto, come non si era mai visto: come un
cannocchiale, o un periscopio, o il tapetum
lucidum
di un gatto (soprattutto quando assistiamo ad una sorta di ripresa a
360°), o come la foto di un loculo, accediamo al mondo diegetico
attraverso un pertugio circolare, tale tecnica, denominata
tondoscopia, oltre a proporsi in una veste innovativa, è, per volere
del regista, la traslazione del Paradiso (una sfera fatta di cerchi,
come il Sommo Poeta insegna) che ha al centro la Terra, un’immagine che
probabilmente ci viene già suggerita nel memorabile incipit. Non c’è
granché da parlamentare, qui si volta alti e la temperatura artistica
è elevata, Van den Berghe si avvicina clamorosamente ad una
prospettiva divina appaiando il ruolo di Dio a quello del regista (il
foro è anche il mirino della cinepresa, no?), e i dubbi su un
possibile esercizio di stile improduttivo sono fugati da un
approccio in fondo così “banale”, un formato rotondo: e che sarà
mai?, capace però di intersecare parecchie strade: religiose,
autoriali, metariflessive, filosofiche, estetiche, che portano lo
spettatore non oso dire lontano, ma che perlomeno gli permettono di
guardare ciò che è lontano,
al pari della famosa illustrazione di Doré con Dante e Beatrice di
fronte alle maestose volute angeliche dell’Empireo.
Importante
è poi il fatto che Lucifer
potrebbe
funzionare
anche senza l’atipica impostazione che lo presenta, il giovane
belga classe ’85, che chiude una trilogia di cui andrebbero
visionate anche le due precedenti pellicole, pesca nel contesto Sud
Americano (messicano per la precisione) un presepio umano a cui è
automatico volere un bene libero e autentico. Nella contiguità che
si crea, col procedere dei minuti traspare un senso di terra, di
radici, di verità che ci affratella con gli umili che si avvicendano
sullo schermo. Tuttavia non si tratta solo di realismo in quanto la
realtà è sì presente ma il vero valore aggiunto è dato dal
superamento della stessa, il serpeggiare di una surrealtà che è in
grado di mimetizzarsi tranquillamente nella quotidianità mi fa
parlare di un equilibrio magico, laddove la magia si esplicita
incostante tra il diabolico ed il celestiale. Non senza ironia (gli
annunci via megafono, un Twitter ante
litteram,
o il cartellone luminoso che auspica il ritorno dello straniero),
l’effigie offerta dal buon Gust di questo sperduto pueblo
è, nell’assoluta ordinarietà, di una ricchezza bonificante, nel
senso che ci depura dal letame audio-visivo attorniante, ed è
delizioso assistere ai vari episodi soprannaturali osservando il
tasso di accettazione da parte dei villici (la scala, le campane, il
[non] miracolo di
Emanuel): nello scenario pigro e rurale il binomio sacro &
profano scopre una nuova pregevole declinazione.
Costituito
da tre atti (altro riferimento alla Commedia?),
Lucifer dà
il meglio fino al momento apicale del ballo in onore dello zio (…
che si alza, e cammina), dopo la scomparsa dell’“angelo” il
moto generato da Van den Berghe abbassa di un filo il tiro
dell’impressione, ma è fisiologico che l’assenza della figura
nevralgica della storia, tra l’altro impersonata alla grande da un
attore, l’unico si presume, di nome Gabino Rodríguez, faccia
venire meno il feeling fruitivo, tuttavia, attraverso uno sguardo
d’insieme, possiamo abbracciare anche nella porzione in cui nipote
e zia rimangono sole (a tal proposito la dipartita del vecchio è un
gioiellino) una vitalità pulsante, un cinema che sa essere arcaico
e contemporaneo, un racconto solenne dalle mire teorico/argomentative
imponenti, e, allo stesso tempo, infinitesimale, dimensionato ad
altezza uomo ma puntato dentro al suo spaventoso abisso, quello che
da millenni cerca di riempire con la Fede.
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