giovedì 7 settembre 2017

Lucifer

In Lucifer (2014) di Gust Van den Berghe tutto è semplicemente magnifico, e quando si dice tutto si intende davvero una totalità estesa che parte dalla componente tecnica e si riflette in quella tematica, è un affastellarsi di anelati si: si trova una profondità nella visione che avevamo lasciato, boh, in Japón (2002)? O in qualche altro (raro e prezioso) film, si respira un’aria biblica, apocalittica, mistica che credo piacerebbe al miglior Dumont, si vede, soprattutto, come non si era mai visto: come un cannocchiale, o un periscopio, o il tapetum lucidum di un gatto (soprattutto quando assistiamo ad una sorta di ripresa a 360°), o come la foto di un loculo, accediamo al mondo diegetico attraverso un pertugio circolare, tale tecnica, denominata tondoscopia, oltre a proporsi in una veste innovativa, è, per volere del regista, la traslazione del Paradiso (una sfera fatta di cerchi, come il Sommo Poeta insegna) che ha al centro la Terra, un’immagine che probabilmente ci viene già suggerita nel memorabile incipit. Non c’è granché da parlamentare, qui si volta alti e la temperatura artistica è elevata, Van den Berghe si avvicina clamorosamente ad una prospettiva divina appaiando il ruolo di Dio a quello del regista (il foro è anche il mirino della cinepresa, no?), e i dubbi su un possibile esercizio di stile improduttivo sono fugati da un approccio in fondo così “banale”, un formato rotondo: e che sarà mai?, capace però di intersecare parecchie strade: religiose, autoriali, metariflessive, filosofiche, estetiche, che portano lo spettatore non oso dire lontano, ma che perlomeno gli permettono di guardare ciò che è lontano, al pari della famosa illustrazione di Doré con Dante e Beatrice di fronte alle maestose volute angeliche dell’Empireo.

Importante è poi il fatto che Lucifer potrebbe funzionare anche senza l’atipica impostazione che lo presenta, il giovane belga classe ’85, che chiude una trilogia di cui andrebbero visionate anche le due precedenti pellicole, pesca nel contesto Sud Americano (messicano per la precisione) un presepio umano a cui è automatico volere un bene libero e autentico. Nella contiguità che si crea, col procedere dei minuti traspare un senso di terra, di radici, di verità che ci affratella con gli umili che si avvicendano sullo schermo. Tuttavia non si tratta solo di realismo in quanto la realtà è sì presente ma il vero valore aggiunto è dato dal superamento della stessa, il serpeggiare di una surrealtà che è in grado di mimetizzarsi tranquillamente nella quotidianità mi fa parlare di un equilibrio magico, laddove la magia si esplicita incostante tra il diabolico ed il celestiale. Non senza ironia (gli annunci via megafono, un Twitter ante litteram, o il cartellone luminoso che auspica il ritorno dello straniero), l’effigie offerta dal buon Gust di questo sperduto pueblo è, nell’assoluta ordinarietà, di una ricchezza bonificante, nel senso che ci depura dal letame audio-visivo attorniante, ed è delizioso assistere ai vari episodi soprannaturali osservando il tasso di accettazione da parte dei villici (la scala, le campane, il [non] miracolo di Emanuel): nello scenario pigro e rurale il binomio sacro & profano scopre una nuova pregevole declinazione.

Costituito da tre atti (altro riferimento alla Commedia?), Lucifer dà il meglio fino al momento apicale del ballo in onore dello zio (… che si alza, e cammina), dopo la scomparsa dell’“angelo” il moto generato da Van den Berghe abbassa di un filo il tiro dell’impressione, ma è fisiologico che l’assenza della figura nevralgica della storia, tra l’altro impersonata alla grande da un attore, l’unico si presume, di nome Gabino Rodríguez, faccia venire meno il feeling fruitivo, tuttavia, attraverso uno sguardo d’insieme, possiamo abbracciare anche nella porzione in cui nipote e zia rimangono sole (a tal proposito la dipartita del vecchio è un gioiellino) una vitalità pulsante, un cinema che sa essere arcaico e contemporaneo, un racconto solenne dalle mire teorico/argomentative imponenti, e, allo stesso tempo, infinitesimale, dimensionato ad altezza uomo ma puntato dentro al suo spaventoso abisso, quello che da millenni cerca di riempire con la Fede.

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