Ancora Calais e ancora un
cinema che è cinema in un modo disarmante e poco importa se Les
éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) (2011) è una protesi
che raccoglie i frammenti perduti di Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre) (2010), nuovamente il confronto con un
film importante, comunque connotato da sfumature divergenti rispetto
a quello precedente (senti le musiche), ci scuote dai torpori delle
visioni narcotizzanti per permetterci un’esplorazione che si
estende in direzioni a cui dobbiamo obbligatoriamente volgerci e
Sylvain George, colui che intercede per noi, sa condurci in territori
che sono concretamente tali (la tendenza a soffermarsi – magari
anche più del dovuto – su dettagli naturali, crepe, mari, fronde,
fanghi) ed in altri che volano più in alto, oltre la diegesi dello
schermo (c’è una parola per questo: umanità, e ce n’è
un’altra: empatia), perché nella geografia del regista francese vi è sopra ogni cosa un’antropologia, ed è per questo, forse,
che nell’affiancare stralci in apparenza superflui a primi piani
strettissimi dei rifugiati si crea un flusso di macerie, schegge,
scarti, cocci, detriti che convergono nell’umano dramma
contemporaneo del clandestino, e le persone, ah le persone!: come in
un confessionale (le loro paure, le loro storie), come in un
reportage (i tentativi di fuga, le sommosse della polizia), sono
proprio le persone (ultime tra gli ultimi) a fare di Les éclats
un film che sovverte i fatti: l’immigrato non è più solo
l’anonimo e indistinto disperato in mezzo ad altri disperati, bensì
soggetto pensante, attivo, la cui colpa principale è quella di
essere nato in un mattatoio.[1]
Il bianco e nero di
George sembra essere l’unico canale estetico possibile in un mondo
come quello di Calais e della sua giungla (attenzione però
all’inaspettato accento rosseggiante […sanguinante?] sull’acqua),
nella granulosità delle immagini, nell’aspetto stinto con cui si
danno e nel tasso di deterioramento che esse stesse veicolano, il
film alla fine penetra in una di quelle dimensioni senza tempo che
solo il cinema può donare, e l’impossibilità di inquadrarlo
cronologicamente è, se lo si vuole, il riflesso degli accadimenti
cronachistici dove la tragedia dei profughi si verifica in un ciclo
che non ha né un inizio né una fine ma solo un adesso.
Abbraccio cogente verso gli esuli smarriti in Europa, magnetismo
formale costruito con semplicità senza sofisticati accorgimenti,
trattato esemplare di applicazione della settima arte al reale,
ritratto di anime che vagolano nel limbo e la cui vita è una fuga
perenne verso la prossima isola, verso il prossimo porto, tutto ciò,
e molto altro che non so esprimere, fanno del cinema di Sylvain
George il più alto esempio di incontro fra politica e poesia in
ambito audiovisivo.
_____________
[1] La sottolineatura di
una direzione votata al personale è fornita dai tre aggettivi
possessivi presenti nel titolo. Colgo l’occasione per citare lo
scritto di Sangiorgio (link) che ha ben enucleato tale fondamentale
aspetto.
Nessun commento:
Posta un commento