Meine
liebe,
io sono
qui in mia stanza, solo, con luce sul comodino che ti penzo ja. Oggi
è stato bellisimo e avrei voluto che non finisse ja. Quando ti vedo
sul cuscino i tuoi capelli ja, i tuo ochi blu ja, sembri il sonne, il
sol come chiami tu. Tu sei il mio sole ja, ah come vorei averti tutta
per me invece ora sarai con un cliente ja, ma io ti portero via da
qua, andremo insieme a Berlin ja, tu sarai la mia regina! Nesuno ti
tocherà più, vivremo felicci in mia casa ja, ho una casa bella e
grande, e tu non devi fare niente lì, penso io a tutto ja, tu cucina
e io lavoro, e poi cocolle, tante, e poi andiamo al cinema, mangiamo
vicino ad Alexanderplatz, so viel liebe zwischen uns!, non vedo la
ora di farti conosere i miei amici ja, e poi prendiamo un cane perchè
ho giardino io e di domenica andiamo a Tempelhof
a fare pic-nik ja, taaante cose faremo amore, mi amor pequeno - spero
scrivere bene :) -, e sarà per sempre, ich und du 4ever ja. Adesso
io dormire ma spero di soniarti, uno bello sonio in cui siamo felici
insieme ja, che bello domani ti vedo e sarai tuta per me. Ich liebe
dich so sehr!!!!
Tuo,
Frantz
VERBALE DI RICEZIONE DENUNCIA PRESENTATA PER ISCRITTO DALLA SIGNORA
GUADALUPE ACEVEDO DIAZ
L’anno 2017 il giorno 25 del mese di settembre, alle ore 10:00,
negli Uffici del Commissariato di Prè (GE), il sottoscritto
ufficiale A.D., sovrintendente della Polizia di Stato in servizio
presso il suddetto Ufficio, dà atto che alle ore 09:30 odierne è
comparsa la sig.ra Guadalupe Acevedo Diaz nata a Santo Domingo il
[omissis], professione [omissis], la quale consegna, confermandone il
contenuto in ogni sua parte, la denuncia che segue:
Oggetto: denuncia per sparizione di persona con possibile
implicazione di sequestro ad opera di ignoti di Lupita Acevedo
Espinal (traduzione a cura dell’azienda L.T. Srl)
In data 11/09/17 mi sono recata in Italia poiché da circa un mese
non avevo più notizie della mia giovane nipote Lupita, di
professione prostituta. A seguito di svariate ricerche riguardanti
alcune persone che negli ultimi tempi avevano avuto contatti con lei,
sono riuscita a risalire al nome di un individuo le cui generalità
rimangono sconosciute ad esclusione del nome, Frantz, e della
nazionalità, tedesca. “Il tedesco”, questo l’appellativo
utilizzato da coloro con cui ho parlato, pare abbia circuito la
ragazza che essendo molto ingenua ha accettato le sue avances, ed è
possibile inoltre che i due si trovino ora all’estero, precisamente
a Berlino. Sono una povera e anziana donna straniera che chiede aiuto
alla Polizia italiana per ritrovare la sua piccola bambina.
Firmato
X
IL PRIMO SOGNO
Lupita crepita. In un campo di granoturco notturno una fiamma umana
incendia il placido ondeggiare delle spighe, da sotto le lingue
infuocate il viso inizia a deformarsi, si scioglie, cola giù sul
corpo-torcia, il grasso dell’epidermide scoppietta nella pira, la
pelle è già carbonizzata, è brace, è fossile. Lupita brucia, per
ore, fino all’alba, diventa uno spaventapasseri abbrustolito, di
quella bellezza, dei diamanti blu ai lati del naso, non resta che un
manichino tostato a mille gradi, si trasforma in uno di quegli umani
rimasti sepolti per secoli in qualche ambiente bio-conservante, una
mummia che, osservata da vicino, ha gli stessi intarsi rugosi, i
medesimi capelli radi ed un’eguale cute sottilissima, pellicola
labile prossima al dissolvimento, di Guadalupe.
RECENSIONE POSTATA DA VINCENT_71 SUL SITO ESCORT 4 YOU
NOME: Lupita
NAZIONALITÀ: dominicana
LOCATION: Via della scoperta dell’America
ETÀ: dice 20, forse qualcuno in più
SERVIZI OFFERTI: BBJ, RAI1, DATY, FK, CIM
RATE: VU per una quarantina di minuti abbondanti
DESCRIZIONE FISICA: altezza sull’1,65, gambe esili, fondoschiena di travertino bello sporgente in stile latin, pancia così piatta che se ci metti una livella sopra la bolla cade esattamente al centro, seno una terza abbondante sodo come due sacchetti di farina, viso da teen con due labbra carnose, pelle vellutata da sembrare seta purissima e, udite udite, occhi blu (no lenti a contatto!) da innamoramento immediato.
NAZIONALITÀ: dominicana
LOCATION: Via della scoperta dell’America
ETÀ: dice 20, forse qualcuno in più
SERVIZI OFFERTI: BBJ, RAI1, DATY, FK, CIM
RATE: VU per una quarantina di minuti abbondanti
DESCRIZIONE FISICA: altezza sull’1,65, gambe esili, fondoschiena di travertino bello sporgente in stile latin, pancia così piatta che se ci metti una livella sopra la bolla cade esattamente al centro, seno una terza abbondante sodo come due sacchetti di farina, viso da teen con due labbra carnose, pelle vellutata da sembrare seta purissima e, udite udite, occhi blu (no lenti a contatto!) da innamoramento immediato.
Carissimi
colleghi, nonostante mi fossi ripromesso di abbandonare il mondo del
punteraggio, a causa di spiacevoli eventi personali e per via di una
voglia mai realmente sopita di pay noto su famoso sito di incontri
l’annuncio di una girl che almeno dalle foto risultava una novità.
La lunga esperienza nel campo mi ha insegnato che il rischio di
trovare un Kim
Jong-un
pronto a missilarti per bene quando ti appropinqui a testare una new
entry è sempre molto alto, però che volete farci, come dicevano i
saggi è un duro mestiere e qualcuno deve pur farlo. La chiamo, la
voce spagnoleggiante è un incanto: ci mette un secondo a
convincermi. Così dopo il solito rito della doccia (sono un
gentleman, che volete farci) dove controllo che il Dirigibile sia in
ordine e di un bicchiere per allentare i freni inibitori (sono anche
un tipo timido!), mi incammino verso la meta designata. Quando sono
sotto il portone la chiamo e, sorpresa, mi dice subito di salire al
terzo piano (punto a suo favore: zero attese!). La porta è socchiusa
e quando entro... ragazzi: una visione, è nuda, indossa solo dei
tacchi, e mi accoglie con un sorriso che avrebbe sciolto anche un
iceberg, voi sapete bene che in quanto a gradi militari, senza
volermela tirare, non ho niente da invidiare a nessuno qua dentro,
però porca troia, questa tipa aveva qualcosa dentro che non mi era
mai capitato prima, infatti quanto segue è, ’sta volta lo dico
quasi sul serio, la descrizione di un incontro onirico, il più bello
di sempre: lei mi viene incontro e subito si avvinghia come se fossi
il maritino tornato dal lavoro, vengo investito da un profumo
ammaliante, una roba da orgasmo sensoriale, parte un FK profondissimo
e senza neanche accorgermene mi ritrovo in bagno privo di pantaloni con
lei che mi lava il Dirigibile, pronti via siamo sul letto ed ecco che
parte con un BBJ galattico, lento, salivato, con quegli occhi puntati
dentro ai miei, come se un laser era lì a penetrarmi l’anima, la
stoppo per evitare una precoce capitolazione e procedo
all’incappucciamento non prima di aver assaggiato il suo succoso
frutto che gusto come un sorbetto alla pesca, dopodiché diamo il via
alle danze: Lupita è semplicemente un vulcano, la prendo mi prende
la giro mi rigiro la agguanto mi sfugge la riprendo mi sfugge ancora,
non ci stacchiamo neanche un attimo, sento del magma, della lava tra
le sue gambe, cerco di pensare con tutto me stesso a qualunque altra
cosa che non sia io medesimo in quella situazione ma è una tecnica
che non ha mai funzionato, allora, nel momento in cui sto per venire,
lei incredibilmente si scansa e con grande rapidità toglie il
gommino per ricevere in bocca il fluido del Dirigibile, poi, una
volta ingoiato, si accascia su di me e restiamo in silenzio qualche
minuto. Non ho avuto il coraggio di dire “a”, solo dopo ho preso
le mie cose e ho lasciato l’obolo sulla cassettiera mentre lei mi
guardava da dietro le coperte che si era portata fin sopra il seno,
prima di andarmene ho dato ancora uno sguardo alla stanza e, non
pensatemi pazzo, per un attimo è stato come se Lupita era circondata
da un chiarore, una specie di aura o non so che cazzo fosse, fatto
sta che incamminandomi verso il corridoio ho iniziato a piangere, non
chiedetemi perché, non saprei rispondere, mi sono come sentito
vicino ad una cosa molto ma molto più grande di me, poi, una volta
chiusa la porta di casa sono trasalito: sul pianerottolo è comparso
un uomo imponente, sarà stato due metri dio santo, indossava una
camicia con il colletto alla coreana allacciato fino in cima, era
pelato e gli occhi non avevano la sclera bianca, erano tutti neri!, e
mi fissava immobile con i pugni piantati sulle anche e le gambe
divaricate, assalito dal terrore sono scappato giù per le scale e ho
iniziato a correre fino alla mia abitazione tentando di sfuggire ad
un mistero che non conoscevo ma che mi spaventava a morte. Che dire,
non so cosa sia successo esattamente quel pomeriggio, ma da allora
non passa secondo in cui io non pensi a Lupita...
UN RICORDO RECENTE
Una volta mi sono affacciata alla finestra per vedere un mio cliente
andare via ed improvvisamente ha iniziato a svanire, prima i piedi,
poi le gambe, infine il busto le braccia e la testa, è stato come
quando un’aspirina si dissolve in un bicchiere d’acqua e tu senti
il rumore che fa nel silenzio della cucina.
VISITA ALLA STANZA DI LUPITA
Il suono del campanello fece sobbalzare Guadalupe, era come una
scossa, un urto sonoro, non ce ne erano così a Santo Domingo, al di là
della porta avvertì dei passi incalzinati, rapidi ma leggeri, un
rumore di meccanismi che si allentano accompagnò il cigolio del
battente in legno, una ragazzina pallida con gli occhi a mezz’asta
e la spallina sinistra scivolata sullo scarno bicipite la guardava
con totale noncuranza, la donna si era preparata tre parole di
italiano: “sono la nonna di Lupita”, ma la smunta biondina non
sembrò nemmeno troppo sorpresa, con un gesto della mano le fece
segno di entrare e subito Guadalupe notò un disordine esponenziale:
scatole, vestiti, scarpe, borsette, trucchi, reggiseni, ogni
indumento sembrava usato la sera e gettato lì al mattino, c’era un
odore strano, dolciastro, nauseante, ed anche la casa era strana: più
la vecchina camminava e più il soffitto sembrava alzarsi, svelava
travi, volte nascoste, arcate, corridoi che si intersecavano e
giravano ad angolo retto verso chissà dove, la ragazzetta continuava
a fare strada grattandosi ogni tanto la nuca platinata, le scarpe
ortopediche di Guadalupe, nonostante la suola in gomma,
riecheggiavano come nella più imponente delle cattedrali, anche la
luce si stava progressivamente abbassando, fu allora necessario per
lei appoggiare il palmo della mano sulla parete che si faceva umida,
l’anziana donna tastò, in quello che ormai era un buio profondo,
una superficie viscida, muschiosa, la stessa delle rocce fluviali
sul fondo dei rii amazzonici, e non sembrava ci fosse fine a quello
che era diventato un vagabondare infinito quando finalmente la tizia
annoiata si bloccò, fece tintinnare quello che forse era un mazzo di
chiavi, e un secondo dopo un’onda di luce investì le due: “qui è
dove stava Lupita”; chiusa la porta alle spalle Guadalupe, malata
di cataratta, iniziò a muoversi a tastoni in un accecante nitore,
capì però presto che gli occhi non le servivano in quel posto
perché sarebbe stato il cuore a guidarla e percependo i contorni
sfarfallanti degli oggetti nella stanza (il letto? L’armadio? Una
scatola di preservativi?) fu attirata dal cassetto del comodino che
tremava sotto i colpi di una tempesta stellare, tutto era bianco,
appena appena bordato in punta di matita, ma il cassetto no, era
concreto, tangibile e sussultava imbizzarrito, allora Guadalupe tirò
il pomello a sé ed un interruttore divino fece cessare la luce
abbacinante, il fondo del cassetto conteneva una lettera scritta a
mano che iniziava così: Meine liebe...
IL SECONDO SOGNO
Una strada urbana immersa nella notte, Guadalupe ha davanti a sé un
lampione che si illumina ad intermittenza, sotto il cono giallastro
vede prima se stessa incinta, la pancia sferica solcata dalla linea
nigra, - buio -, giallo: lei da bambina con addosso quei quattro
stracci che ha tenuto fino al giorno in cui è andata via
dal villaggio, - buio -, giallo: e infine Lupita, nuda, rannicchiata,
un feto cresciuto, che singhiozza disperata. La nonna fa due
passetti, vorrebbe stringerla a sé ma il lampione si spegne ed anche
sua nipote scompare, rimangono solo due punti luminescenti in
corrispondenza degli occhi, Guadalupe li afferra per ritrovarsi in
mano due piccole lucciole dall’addome pulsante.
UNA TESTIMONIANZA
“Frantz? Frantz il tedesco? Signora... guardi... mi capisce quando
parlo? Ecco bene, no, dicevo, sì insomma io glielo dico proprio come
se fosse una mia parente: lasci perdere, cioè non si metta a cercare
da sola sua nipote, chieda aiuto alla polizia, al consolato
dominicano, non so non sono molto esperta eh eh, ma vede, quel tizio,
quell’uomo mi ha sempre fatto paura, lo si vedeva in giro ogni
tanto, spuntava dal nulla e spariva nel nulla, giravi l’angolo e
bum! Te lo trovavi davanti, alto, gli zigomi pronunciati, lo sguardo
strano, magnetico e allo stesso tempo... come dire, respingente, non
so se intende... e comunque qui nessuno sa di cosa campava, dopo che
rientrava da lunghi periodi di assenza appariva ancora più tetro di
prima, un fantasma, però nero, mio figlio è convinto che non fosse
nemmeno tedesco, forse serbo o bulgaro, e poi, ma questa la prenda
come una confidenza, mi raccomando, sempre mio figlio ha sentito dire
che quel tipo sia il proprietario del più grande postribolo di
Berlino e che giri l’Europa cercando ragazze da portare via con sé,
ma io non le ho detto nulla cara signora, le ripeto, al massimo, di
fare attenzione, e ovviamente sono molto dispiaciuta per Lupita, me
la ricordo sa? Quando è arrivata era proprio piccola, un amore di
ragazza! Una volta mi ha aiutata a portare le borse della spesa,
quando siamo arrivate al mio piano l’ho ringraziata e solo a quel
punto ho incrociato i suoi occhi blu, ecco non so spiegarmi bene
ma... è successo che... oh niente, lasci perdere, sono anch’io una
vecchietta in cerca di pace, questa sera dirò una preghiera per lei
e per la dolce Lupita. Ma senta, vuole salire a prendere un caffè da
me?”
UN RICORDO LONTANO
Sono una bimba che gioca nell’aia fuori dalla casa, c’è una
viuzza sterrata che mi divide dalla strada principale, la tv
gracchiante lasciata accesa in soggiorno mi distrae
dall’importantissima riunione tra bambole che sto organizzando in
quel momento, allora entro in casa, supero il nonno che ronfa
accartocciato sulla poltrona, spengo la tv ed esco nuovamente nel
patio, oh no: le mie bambole sono tutte a pezzi nello spazio
antistante l’entrata, una gambetta liscia e affusolata è nelle
mani di un uomo altissimo ritto in controluce di cui non riesco a
vedere il viso, al guinzaglio tiene un gatto gigantesco, un certosino
dalle pupille gialle grande come un leone, l’uomo lascia andare la
corda e l’animale inizia a muovere i suoi passi felpati verso di
me, digrigna il muso e due denti acuminati brillano nella quiete
dell’isola, sono così piccola, sono uno scricciolo con i codini!,
la fifa mi fa chiudere gli occhi e sento il fiato nauseabondo della
bestia a pochi centimetri da me, ma le mie palpebre sono degli oblò
su un mare cristallino punteggiato da isolette e solcato dalle pinne
dei delfini gentili, e poi non sento più il suolo sotto i piedi,
lievito, ed anche l’alito del gatto sfuma e io continuo ad
osservare il placido paradiso che si estende sotto le mie ciglia, e
non ho più paura dell’uomo, del mostro, sono felice così, così:
in braccio alla nonna che profuma di vaniglia.
IN UN LUOGO OSCURO
La
prima cosa che vediamo è un rettangolo nero. Poi l’immagine si
allarga e capiamo che quello spazio di tenebra è contenuto
nell’orbita oculare di una persona, scorgiamo l’inizio del
sopracciglio e l’inizio del naso, il quadro, per un attimo, resta
quello, immobile, poi di colpo ci gettiamo a capofitto nella mandorla
corvina, veniamo risucchiati dalla gelatina bruna del corpo vitreo, i
suoni si fanno ovattati, lontani, una scintilla elettrica attende in
fondo al cono rovesciato, proviamo a risalire ma ormai è troppo
tardi, quando ci affacciamo sul nervo ottico inizia la caduta
verticale: siamo dei tuffatori che si lanciano tra le fronde di una
foresta tropicale, i rami nodosi ci sfregiano il viso ed il corpo,
le foglie verdi, grandi come padelle, ci prendono a schiaffi, i boa
arrotolati scattano per soffocarci tra le loro spire, le sanguisughe
si incuneano nelle nostre ferite, le scimmie ci strappano lembi di
carne dai polpacci, ma noi proseguiamo la nostra folle discesa nella
selva intricata, è un crollo, totale, disumano, spaventoso, che si
conclude su una pianura desolata non lontana da Kiev, è il 29
settembre 1941 e noi siamo lì: a Бабий
Яр. Il suolo che annusiamo non ha particolari odori, ci sono qua e
là ciuffi di erba verdina, l’aria autunnale immalinconisce, siamo
tranquilli, non è mai successo niente da queste parti, ma: due
scarpe di cuoio impolverate, un laccio sotto la suola, due calzini di
lana spessa che coprono le gambe sottili infilate in un pantaloncino
corto sorretto da un paio di bretelle sgualcite, è un bambino, avrà
dieci anni, è l’ultimo della fila che si snoda fino alla fossa,
suo padre lo tiene per mano e cerca di nascondere gli occhi gonfi di
lacrime, il bambino chiede se di lì a poco prenderanno il treno per
andare via (RATTRA-TRATRA), e l’uomo risponde di sì, che i rumori
appena sentiti sono le ruote della locomotiva sui binari, poco oltre
un vecchio è seduto su una sedia spuntata da chissà dove, i duri
lineamenti slavi con gli anni si sono addolciti e le labbra, attirate
da una misteriosa forza interna, sono sparite dentro la bocca, il
mento è appoggiato sulle mani a loro volta posate sul manico del
bastone, è sereno, calmo, consapevole che quella colonna di esseri
umani si sta avvicinando, passo dopo passo, nel cuore del male, e
che, una volta abbandonate queste spoglie terrestri, per tutti loro
ci sarà la beatitudine dei martiri, ma è comunque una magra
consolazione, vallo a spiegare a (RATTRA-TRATRA) Mariya, ai ventidue
anni che ha e al feto che, a sua insaputa, le si sta sviluppando nel
grembo e che non conoscerà mai il mondo, o a Roman che pensa a
quando ritornerà a casa senza sapere che brucerà in quell’anonima
vallata insieme ad altri che pensavano la stessa cosa, e noi li
vediamo tutti, li percepiamo, è una rassegna lancinante in cui
lievitano nuvole di dolore e rassegnazione, ogni volto, dal più
giovane al più anziano, è una statua ad eterna memoria che resterà
lì fino alla fine dei giorni, non ravvisiamo speranza alcuna,
invece, nei robotici sguardi delle sentinelle che ai lati mantengono
impassibili l’ordine dell’infinita riga di condannati, e quando
arriviamo al punto in cui essi stessi obbligano (RATTRA-TRATRA) le
persone a spogliarsi nude non vorremmo vedere nient’altro, basta,
solo oblio e cecità, ma le montagne di vestiti che si creano
indumento dopo indumento sono l’ultimo brandello di civiltà che ci
obbliga a continuare la nostra via crucis per cercare di capire che
cosa si nasconde nel nucleo di tutto, e proviamo pena e imbarazzo e
fratellanza e umanità di fronte ai corpi sgraziati delle anziane
donne che tentano di celarsi pudicamente le parti intime se non sono
già state coperte dagli amorevoli abbracci dei rispettivi coniugi,
i bimbi, che fino a quel momento pensavano di come tutto fosse un
gioco, cominciano ad insospettirsi, che cosa ci fanno quegli adulti
nudi? Che cosa sono quei batuffoli scuri tra le gambe delle donne? E
quel pendolo avvizzito dei vecchi? Riposizioniamo lo sguardo sul
terreno: piedi, piedi a contatto con la terra, decine, centinaia di
piedi che si spostano piano, piedi pronti a spiccare il volo in una
buca di cadaveri, ancora e (RATTRA-TRATRA) sempre piedi, solo piedi,
fino ad un leggero declivio che segue il bordo di una collinetta, qui
c’è solo un paio di piedi e uno di stivali, lucidi, con qualche
schizzo di fango a sporcare il nero immacolato, non vorremmo alzare
la testa, vorremmo fermare il corso degli eventi ma la scarica del
fucile ci fredda il sangue e l’arrivo di altri piedi ci obbliga ad
affrontare l’uomo in divisa, la sua imponenza, la stazza massiccia,
il suo cranio pelato, perfetto, e di nuovo abbiamo un’immagine che
si staglia netta: un rettangolo atro, una pupilla che ha invaso la
sclera, un pozzo artesiano ovale che ci scaglia ancora nel vuoto,
nell’orrore, nell’indicibile.
IL TERZO SOGNO
Guadalupe, giovane e bella come era un tempo, cammina al fianco di
Lupita, gobba, sdentata e scheletrica come forse sarà un tempo, è
buio, si trovano a Playa Grande ed il plancton nell’acqua caraibica
emette una fosforescenza che fa confondere il mare con il cielo
stellato. C’è una calma infinita che le due donne attraversano
mano nella mano, si stringono, non si lasciano, indossano una camicia
bianca baciata ogni tanto dalla brezza: nonnina mia, dice la vecchia
Lupita, sono molto lontano da qui, lo so, risponde la splendida
Guadalupe, ma giuro che ti troverò, ovunque tu sia. Sulla battigia
le orme di Lupita svaniscono e contemporaneamente il plancton e le
stelle si spengono lasciando la nonna sul freddo arenile. Intorno a
lei cala la notte dei morti.
V
Nel
piazzale i motori dei taxi giravano al minimo in attesa dell’uscita
dei clienti mentre altri taxi ne portavano continuamente di nuovi
creando una catena mossa non tanto dalla benzina quanto dai feromoni
maschili, Guadalupe, la vecchietta che aveva attraversato
l’Atlantico, girovagato nei meandri italici e indagato come una
detective in cerca di una pista che la mettesse sulle tracce di sua
nipote, adesso era giunta in una zona industriale di Berlino ovest,
scesa dalla U-Bahn
aveva fatto qualche passo lungo una superstrada illuminata ogni venti
metri dai lampioni adunchi, le macchine che sfrecciavano sull’asfalto
erano flash di cui rimaneva soltanto lo spostamento d’aria
procurato, Guadalupe non aveva la minima intenzione di fermarsi ora
che era vicina al traguardo, una meta, una stella cometa che non
lontano da lei sfrigolava grazie a luci al neon rosa indicanti la
via: VENUS, nel cielo berlinese, l’unico astro che poteva muovere
centinaia di satelliti era quella scritta che la donna, adesso,
guardava dal basso verso l’alto mentre vicino a lei uomini di ogni
età entravano (carichi e virili) e uscivano (ebbri ed estasiati), ai
lati dell’entrata erano state poste due statue dozzinali che
riproducevano la Venere botticcelliana ma al posto della conchiglia i
piedi della duplice dea poggiavano su un ben più prosaico cubo di
plastica. Si fece coraggio con le uniche quattro parole di inglese
che si era preparata: i am looking for Mr. Frantz, la voce tremula,
la borsetta di pelle tenuta con dignità sullo stomaco, a difesa di
se stessa, uno scudo per proteggersi nella valle pruriginosa in cui
stava per penetrare; la donna dietro la reception non batté ciglio
e, compresa l’insormontabile barriera linguistica, indicò alla
nonna con la punta della penna il terzo piano di una piantina alle
sue spalle: here you can find Mr. Frantz, ma Guadalupe, ovviamente,
non capì e subito fu distratta da una giovane ragazza completamente
nuda che le passò davanti per poi infilarsi in una porta con scritto
“verboten”, third floor ripeté la cassiera muovendo pollice,
indice e medio ad un palmo da Guadulupe che fece un sospiro e si
mosse in direzione della porta che dava accesso al locale. Lo spazio
era ampio e presentava un miscuglio di stili, capitelli romani usati
a mo’ di sedie avevano come sfondo tendoni dal sapore orientale
raffiguranti tigri e samurai, tutto il perimetro era occupato da
pomposi divanetti rococo su cui una quantità indefinibile di femmine
e di maschi si abbandonava ad una intimità normata dal denaro, le
prime si vendevano voluttuose, i secondi percorrevano con gli occhi
la spina dorsale delle loro amanti ad ore come fosse una cremagliera
che portava sul cucuzzolo di un monte sacro, non era solo un
bordello, era il fulcro di un universo in costante implosione
spermatica, lì dentro gli uomini erano uno uguale all’altro, la
divisa d’ordinanza era un accappatoio bordeaux che copriva le loro
pudenda in fibrillazione, il bavero della vestaglia spugnosa si
apriva sul petto come una V, una grande V: l’imbuto che veicola,
la punta che mira, la freccia che caccia, ma anche un varco aperto su
riccioli di peli neri o sulla ricrescita tra i pettorali, o ancora
uno sterno sporgente, il ghirigoro di un tatuaggio, una lunga
cicatrice fino all’ombelico, un esercito di uomini vagava in un
luogo amorfo dove i corpi nudi femminili erano il Filo d’Arianna
che li prendeva al guinzaglio. Nessuno si accorse di Guadalupe che
continuava a stringere a sé la borsetta, e indecisa su come
procedere in mezzo a quella tonnara di pelle profumata e aliti
alcolici decise di fare ciò che aveva fatto non molto tempo prima
nella casa di Lupita: chiuse gli occhi, e un vento solare inondò il
postribolo, ora il bianco imperava ed ogni puttana, ogni consumatore
erano scivolati dall’altra parte, solo due brillii svolazzavano di
fronte all’anziana, due lucciole che a malapena si potevano
scorgere nella realtà eburnea la guidavano sul sentiero della
verità, e mentre oltre la membrana lattescente coppie di sconosciuti
copulavano in camere dal discutibile arredamento, lei saliva i
gradini che la separavano dal tedesco, ma giunta alla terza rampa le
lucciole svanirono in un filo di fumo, allora fu costretta ad aprire
gli occhi ed ogni cosa virò in nero: la targa dorata vicino allo
stipite della porta diceva AMAZON PRIVE, varcata la soglia Guadalupe
lasciò cadere a terra la borsa, la stanza ottagonale era costituita
da pareti riflettenti che doppiavano la sua immagine all’infinito e
finalmente, con la gioia nel cuore, rivide in quei riflessi la sua
adorata Lupita, decine, centinaia di Lupite la circondavano, poi, da
un tassello privo di specchio, da un rettangolo di buio dal quale
proveniva lo scrosciare di una cascata, il grido di una scimmia, il
frullare delle ali di un pappagallo e tutto il concerto delle foreste
che trasudano acqua come se fossero lacrime, si udì una voce che era
la voce delle voci, un abisso vertiginoso che ammutolì Berlino,
l’Europa, la Terra, il Sistema Solare e i miliardi di pianeti che
vorticano nelle sconfinate galassie sopra le nostre teste: komm hier
meine Lupita, meine liebe.
UN RICORDO FUTURO (E
IMPOSSIBILE)
Dove vanno a finire i nostri sogni? e le nostre promesse? forse nel fuoco che brucia tutto, quello che siamo stati e che mai saremo.
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