Quando il cinema ha
incontri ultra-ravvicinati con il reale, e quando copula con esso
fino ad incastrarvisi in una sovrapposizione che rasenta la totalità,
allora non può che generarsi Qu’ils reposent en révolte
(Des figures de guerre) (2010) di Sylvain George che è un
film grande e non solo per il suo metodo di trasmissione ma anche per
l’incandescente nucleo argomentativo che affronta, e questi due
rivi che si compenetrano creando un corpo che è “la realtà
delle cose” danno luogo ad una proiezione che sa vestirsi di
un’autorialità e di un’artisticità che forse non
sono esattamente proprie di oggetti del genere, e qui sta la bravura
di George che non cede al mero reportage giornalistico né
ammicca allo spettatore (vedi Fuocoammare, 2016) ma fa della
sua camera una porta che è lì, esattamente lì a
Calais, in mezzo ai poveracci sfiancati da traversate omeriche, e che
al contempo non è solo lì ma anche nella dimensione di
un cinema che si atuodilata, che contempla una battigia e la schiuma
delle onde fatta vibrare del vento, che nel bianco e nero diventa
atemporale, e(s)terno, altro, senza mai esserlo del tutto, sostando
dunque in un limbo uguale a quello in cui sono impaludati i rifugiati
in quella zona della Francia. La chiave che ci permette di leggere
l’opera è sita nella capacità della stessa che ha nel
fare ciò che è quasi commovente se si parla di settima
arte, e mi riferisco alla cosa più semplice, e perciò
più difficile per un regista, che è l’essere in grado
di estrapolare dalla realtà una possibile storia, perché,
come già ripetuto all’infinito, la realtà contiene
tutte le storie senza bisogno di finzionalizzare alcunché.
E allora quanta potenza
etico-estetica c’è in un ragazzo che fugge sotto un camion
diretto chissà dove? E quali mondi si scoperchiano di fronte
ad un altro ragazzo, lo stesso, diverso, che si rannicchia su un
marciapiede per dormire? Seguendo queste vite smarrite che lasciano
dietro di sé gli scarti di una loro presenza come se fossero
un esercito di Pollicini (un sacchetto di H&M, le scritte sui
muri), George ci somministra un documento che è politica
piuttosto che un “banale” documentario, una politica sempre
urgente in cui non è facile trovare un’uscita di sicurezza
[1] e dove il regista stesso si tuffa facendoci provare l’asprezza
del conflitto: fa male, davvero, la confusione e l’incomprensione
che inevitabilmente sfocia in violenza fra persone che non hanno
niente in comune, a parte il “dettaglio” di appartenere alla
stessa razza, umana ovviamente. Senza retorica spicciola, come del
resto George insegna sapientemente, Qu’ils reposent en révolte
interroga e scomoda, esalta senza piedistalli, addita senza
paternali, racconta senza una storia perché non fa altro che
raccontare la Storia che è la nostra, e mentre io uso i
polpastrelli delle mie dita per scrivere queste parole, qualcun
altro, proprio adesso, o ieri, o sicuramente domani, sta-va/rà
marchiando le sue stesse dita con le spirali di una vite arroventata
per cancellarsi le impronte digitali disidentificandosi per trovare
un’identità: a ciò ambisco quando vedo un film,
arroventarmi a mia volta per bruciare nell’intensità della
visione e non essere più io, ma un profugo qualunque che non
mangia da giorni e che ha perso tutta la sua famiglia da qualche
parte in Turchia.
______________________
[1] Si pensi al fatto che
sebbene assistiamo allo sgombero della Giungla nell’anno che
dovrebbe essere il 2009, per circa tutto il lustro successivo la
baraccopoli ha comunque continuato ad espandersi diventando il più
grosso campo rifugiati europeo, almeno fino ad ottobre ’16, data
di quello che ad oggi dovrebbe essere l’ultimo smantellamento.
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