venerdì 5 maggio 2017

Qu'ils reposent en révolte (Des figures de guerre)

Quando il cinema ha incontri ultra-ravvicinati con il reale, e quando copula con esso fino ad incastrarvisi in una sovrapposizione che rasenta la totalità, allora non può che generarsi Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre) (2010) di Sylvain George che è un film grande e non solo per il suo metodo di trasmissione ma anche per l’incandescente nucleo argomentativo che affronta, e questi due rivi che si compenetrano creando un corpo che è “la realtà delle cose” danno luogo ad una proiezione che sa vestirsi di un’autorialità e di un’artisticità che forse non sono esattamente proprie di oggetti del genere, e qui sta la bravura di George che non cede al mero reportage giornalistico né ammicca allo spettatore (vedi Fuocoammare, 2016) ma fa della sua camera una porta che è lì, esattamente lì a Calais, in mezzo ai poveracci sfiancati da traversate omeriche, e che al contempo non è solo lì ma anche nella dimensione di un cinema che si atuodilata, che contempla una battigia e la schiuma delle onde fatta vibrare del vento, che nel bianco e nero diventa atemporale, e(s)terno, altro, senza mai esserlo del tutto, sostando dunque in un limbo uguale a quello in cui sono impaludati i rifugiati in quella zona della Francia. La chiave che ci permette di leggere l’opera è sita nella capacità della stessa che ha nel fare ciò che è quasi commovente se si parla di settima arte, e mi riferisco alla cosa più semplice, e perciò più difficile per un regista, che è l’essere in grado di estrapolare dalla realtà una possibile storia, perché, come già ripetuto all’infinito, la realtà contiene tutte le storie senza bisogno di finzionalizzare alcunché.

E allora quanta potenza etico-estetica c’è in un ragazzo che fugge sotto un camion diretto chissà dove? E quali mondi si scoperchiano di fronte ad un altro ragazzo, lo stesso, diverso, che si rannicchia su un marciapiede per dormire? Seguendo queste vite smarrite che lasciano dietro di sé gli scarti di una loro presenza come se fossero un esercito di Pollicini (un sacchetto di H&M, le scritte sui muri), George ci somministra un documento che è politica piuttosto che un “banale” documentario, una politica sempre urgente in cui non è facile trovare un’uscita di sicurezza [1] e dove il regista stesso si tuffa facendoci provare l’asprezza del conflitto: fa male, davvero, la confusione e l’incomprensione che inevitabilmente sfocia in violenza fra persone che non hanno niente in comune, a parte il “dettaglio” di appartenere alla stessa razza, umana ovviamente. Senza retorica spicciola, come del resto George insegna sapientemente, Qu’ils reposent en révolte interroga e scomoda, esalta senza piedistalli, addita senza paternali, racconta senza una storia perché non fa altro che raccontare la Storia che è la nostra, e mentre io uso i polpastrelli delle mie dita per scrivere queste parole, qualcun altro, proprio adesso, o ieri, o sicuramente domani, sta-va/rà marchiando le sue stesse dita con le spirali di una vite arroventata per cancellarsi le impronte digitali disidentificandosi per trovare un’identità: a ciò ambisco quando vedo un film, arroventarmi a mia volta per bruciare nell’intensità della visione e non essere più io, ma un profugo qualunque che non mangia da giorni e che ha perso tutta la sua famiglia da qualche parte in Turchia.
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[1] Si pensi al fatto che sebbene assistiamo allo sgombero della Giungla nell’anno che dovrebbe essere il 2009, per circa tutto il lustro successivo la baraccopoli ha comunque continuato ad espandersi diventando il più grosso campo rifugiati europeo, almeno fino ad ottobre ’16, data di quello che ad oggi dovrebbe essere l’ultimo smantellamento.

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