Dal titolo si srotola un
lungo tappeto percorribile con gli occhi, perché Ore wa
Sono Sion da! (1985), che si tradurrebbe all’incirca con Io
sono Sono Sion!, contiene quel potere ostensivo che si percuoterà
come un sisma in tutta la filmografia di lì a venire del
giapponese. Sfido a trovare un film di Sono dove non ci sia uno
slancio autobiografico dei personaggi sulla scena (ce n’è
più di uno, e guarda caso si tratta di due delle opere
peggiori: Be Sure to Share [2009] e The Land of Hope
[2012]), slancio occultante null’altro che la vera
autobiografia, quella di Sono stesso che nel suo cinema ha spesso
trovato nei vari personaggi degli evidenti alter ego, e qui il
discorso trova apice per ora in Why Don’t You Play in Hell?
(2013). Constatato il focus sull’identità riassunto nel
titolo e ripetuto due tre volte da un giovane Sono davanti alla
cinepresa, ciò che costituisce il resto di Ore wa Sono Sion
da! è di una amatorialità lampante, tanto da far
apparire il corto d’esordio Love Song (1984), di cui vengono
riproposti dei brandelli, un lavoro più “maturo” con
almeno una sottospecie di idea a sorreggerlo.
Che cosa accada in Ore
wa Sono Sion da! è un mistero imperscrutabile,
inizialmente parrebbe una specie di diario dove Sono annota date, ore
e minuti facendo il countdown del suo compleanno (il pensiero va a
Keiko desu kedo, 1997), ma nel giro di poco si degenera in un
pasticcio dilettantesco che forse, e sottolineo forse, vorrebbe
mostrare la realizzazione di un film in itinere e quindi fare del
metacinema ante litteram, il risultato è però
lontanissimo dal minimo sindacale e lo spettatore è costretto
a vedere Sono che: con una vocina stridula e comportandosi come un
buffone intervista una ragazzina; si fa rapare la testa urlando e
ansimando; amoreggia nudo con dei busti di statua. Il tutto, come
detto, trasmesso con un metodo privo della benché minima
professionalità e, mi permetto di aggiungere, orfano di un
progetto guida. È davvero un film in preda a raptus insensati
e mal assortiti, l’unico spunto interessante è quando Sono,
verso la fine, inizia a dissertare sull’effettiva presenza nella
diegesi e su ciò che la camera riesce a cogliere o meno,
briciole teoriche che nella prima stagione della carriera troveranno
poi completamento in alcuni fugaci blitz sperimentali.
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