Glukhota (2010),
ovvero l’incubatrice di Myroslav Slaboshpytskiy per il progetto The Tribe (2014). Anche qui il regista ucraino, affascinato dal
linguaggio dei segni fin da quando era un bambino poiché la
sua scuola era vicina ad un convitto per ragazzi sordi, utilizza
questo metodo per imbastire il canale comunicativo del film, che, a
conti fatti, diventa un canale volutamente senza ricevente poiché
i destinatari, cioè noi spettatori, orfani di sottotitoli,
nulla conosciamo a proposito dello scambio animato che i due ragazzi
hanno. La strategia di Slaboshpytskiy è dunque evidente:
estromettere chi guarda dei e dai codici che solitamente normano una
conversazione e di rimando anche un film prettamente narrativo come
lo sono tutti quelli che arrivano nelle sale. Il regista non è
che si lanci in una qualche forma d’avanguardia, più
banalmente utilizza un’altra natura della narrazione per raccontare
una storia, non c’è trascendenza, ma, almeno nei dieci
minuti di Deafness, emergono punti di interesse.
Indubbio che così
strutturato e così intessuto il corto esprima abbastanza bene
le sue potenzialità, il fatto che chi assiste è
all’oscuro delle motivazioni che mettono il poliziotto sulle tracce
del giovane snellisce la trama da faccende che altrimenti sarebbero
state superflue agendo, al contrario, sul possibile sforzo mentale
dove abbondano i condizionali (“potrebbe essere che…”). Ma dato
il ristretto minutaggio non c’è spazio per interrogativi
personali, la presa realistica di Slaboshpytskiy, camera a mano in un
angusto corridoio urbano (tutto accade in un metro quadrato di
desolazione), ci costringe all’atto della testimonianza oculare:
non è permesso comprendere i due sordomuti come allo stesso
modo non è possibile carpire le invettive dei poliziotti con i
loro modi ben poco ortodossi. Ed è proprio lì, in quel
piano fisso disturbato dallo stordente ronzio dell’automobile, che
si sostanzia Deafness: la crudeltà dell’immagine,
recipiente di possibili e aperti significati.
Che tutto ciò
funzioni in un contenitore di neanche un quarto d’ora non
stupisce poi troppo, per The Tribe, film di oltre due ore, i
discorsi da fare potrebbero essere altri. Vedremo.
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