sabato 23 settembre 2023

L’impossible - Pages arrachées

Bello concludere un ciclo di visioni ritornando all’inizio, in attesa di nuove uscite posso dire che nel campo del lungometraggio di Sylvain George il sottoscritto ha visto tutto quello che c’era da vedere (viceversa i lavori minori mancano e sono cospicui come da elenco sulla pagina di Wikipedia francese dedicata al filmmaker), ma è ancora più bello scoprire che dentro ad un’opera prima c’è già molto, se non tutto, di quello che verrà in futuro. Per la cronaca: lo sguardo sui clandestini è lo stesso di Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre) (2010), le apnee dei tumulti in strada si ripresenteranno in Vers Madrid: The Burning Bright (2012). È un grande George questo de L’impossible - Pages arrachées (2009), straripante nel restituirci pagine letteralmente strappate alla nostra epoca, e oculato nel costruire un quadro di disperato silenzio. Leggendo in giro viene più o meno sottolineato ovunque che il film è diviso in cinque parti, vero, però ciò che si percepisce maggiormente è una suddivisione in tre blocchi, anzi due più una coda disallineata dal corpo. Il primo è la “solita” immersione nei dintorni di Calais, non vediamo fisicamente molti rifugiati, piuttosto ci si concentra sulle loro tracce disseminate nella zona, il secondo è invece un travolgente reportage calato fino al collo dentro a delle manifestazioni scivolate nella violenza che si tennero a Parigi nella primavera del 2009 mentre il terzo, un breve epilogo, propone dei filmati d’archivio riguardanti la condizione degli omosessuali intorno al 1960. Ad esclusione di quest’ultima porzione che tematicamente è un po’ una mosca bianca nella filmografia del regista, il resto è il cinema fiammeggiante e d’assalto che abbiamo imparato ad apprezzare negli anni.

Doveroso porre l’accento sullo scarto che si consuma sullo schermo tra la parte dei migranti e la successiva cronaca-verità nella capitale. È una dissonanza portentosa: il ritratto sulla migrazione è girato in super 8, le immagini sono rovinate, bruciate e soprattutto totalmente prive di sonoro. È una realtà ammutolente che sembra giungere da un altro tempo quando invece è proprio il nostro di tempo che George va ad immortalare. La chiusura sul ragazzo afghano ucciso prima di poter attraversare la Manica è la pietra tombale che ci meritiamo, al pari dello scontro audiovisivo che ne consegue: la duplice e repentina immissione dei suoni in presa diretta e la scelta di una cromatura metallica che scintilla in un tanto nero e poco bianco, catapultano lo spettatore nelle trincee urbane, nella confusione, nella paura, nelle brutali cariche della polizia. È un cambio di prospettive micidiale che annienta e al contempo rafforza il segmento iniziale e che mi fa pensare a chi, nel panorama autoriale odierno, possiede non dico la medesima capacità di stare dentro la Storia e la politica (qui il bersaglio è Sárközy), ma perlomeno di avvicinarcisi e francamente non riesco a portare nessun altro esempio, per cui preserviamo la settima arte di Sylvain George, ne va della nostra coscienza e della nostra civiltà.

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