Tizza Covi e
Rainer Frimmel proseguono la loro esplorazione di un mondo ormai in
via di estinzione: il circo, per farlo ritornano negli stessi luoghi
di Non è ancora domani (La pivellina) (2009) concentrandosi
sulla figura di Tairo Caroli, un domatore di leoni, alla ricerca del
forzuto Arthur Robin che anni addietro gli diede in dono un
portafortuna ora smarrito. Il registro del duo italo-austriaco è
come di consueto un abbraccio della realtà catturata con pochi
filtri, l’essenza del film si muove tra il confine
dell’impostazione e quello dell’improvvisazione senza dare la
possibilità a chi guarda di riconoscere agevolmente le due istanze,
succede che in certi frangenti sembra di assistere ad un documentario
mentre in talaltri ad un’opera di fiction, questa indeterminatezza
è un asse portante nel cinema della coppia (ricordo identiche
caratteristiche anche per The Shine of Day, 2012), non sarà
il top dell’innovazione ma non è nemmeno poi così male. Il focus
su Tairo permette di accedere nel mondo circense da diverse porte,
tutte che conducono in stanze/tematiche degne di attenzione;
l’inquietudine del ragazzo, specchio di una precaria situazione
lavorativa, è il motore della vicenda dispiegata in una “caccia
all’uomo” che si rivela una caccia verso se stesso, del resto
Mister Universo (2016) potrebbe anche essere inteso come un
racconto di formazione che enuclea un percorso di crescita personale,
di cambiamento: parallelo di un circo che per forza di cose non può
essere lo stesso del passato. Inoltre è carina la costellazione
famigliare che il protagonista nel suo tragitto va a visitare,
case-roulotte, nomi esotici, vite gitane che sfioriamo insieme a lui
nello spazio di un caffè o una sigaretta, e poi i residui della
tradizione, la superstizione, i tarocchi, gli amuleti,
un’enciclopedia che arriva in punta di piedi ma che arriva.
Certo è che
la pellicola in oggetto, al pari delle altre firmate da Covi &
Frimmel, facendosi portavoce di una storia minima, risulta avere una
piccola statura, e come in tutte le cose che sono piccole spesso
delle fragilità ne minano l’integrità. Quando Mister Universo
imbocca la strada finzionale emerge qua e là un’ingessatura che
non è mai facile rimuovere, e ciò accade sempre in contesti del
genere così ibridi, in particolar modo durante le interazioni tra
gli “attori” dove anche la più alta percentuale di
estemporaneità non può fare a meno di venire intaccata da un
canovaccio preparatorio studiato a tavolino. Cito ad esempio
l’incontro tra Tairo e Mr. Robin che cozza con l’impianto
generale, troppo forzato e poco naturale. Vabbè, se si riesce ad
aggirare tale scoglio (massì, suvvia ci siamo dovuti sorbire ben di
peggio nella nostra carriera spettatoriale), il film ha energia
sufficiente per condurci alla conclusione perché è vero che gli
oggetti piccoli prestano facilmente il fianco a dei difetti, però è
altrettanto vero che possiedono una forza inspiegabile e che sanno
darci del tu senza chiedere grandi sacrifici in cambio, se non, al
massimo, restare seduti neanche novanta minuti di fronte ad uno
schermo. Nel cosmo della settima arte, popolata da infiniti corpi
celesti dalle forme più varie, quello di Tizza e Rainer, pur non
essendo una supernova, ha una sua luce portatrice di schiarore.
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