In generale il prodotto mi è parso di qualità e ha come punto di forza la coesistenza nello spazio-cinema tra il racconto orale che parla di un futuro lontanissimo, di esseri umani non più tanto umani, di escatologia e di altre robe enormi che stanno nell’universo, e le lente carrellate visive sulle costruzioni appartenenti al passato recente che nulla c’entrano con Nettuno o altri fantasiosi voli pindarici. La potenza dell’artificio, dell’assemblaggio di istanze divergenti spacciate per un unicum, è del resto una peculiarità della settima arte sfruttata da tanti registi (uno che subito mi sovviene, per rimanere nella stessa etichetta, è quel vecchio volpone di Herzog che aveva agito in maniera similare con L’ignoto spazio profondo, 2005), e Jóhannsson, anche se privo di esperienza sul campo, pare aver ben digerito la lezione trovando un suggestivo equilibrio tra parole, note e immagini. Però è giunto il momento del però: se cerchiamo un cinema di frontiera, che sappia proporsi attraverso forme innovative, che metta in difficoltà chi guarda, che sia capiente, generoso, ostico, intransigente, be’, ritengo che Last and First Men non possa essere il risultato di suddetta ricerca, e potrebbe apparire un paradosso perché il film avrebbe anche le caratteristiche appena elencate, se non fosse che, a mio avviso, è principalmente apparenza, non c’è vera avanguardia né vero studio, è patina, ben confezionata, attraente e intrigante se lo si vuole, ma pur sempre patina rimane. Avverto un abisso, ad esempio, con un’opera come Meteorlar (2017) che in fondo ha basi e sviluppo equiparabili, se dovessi spiegare la distanza tra i due film ricorrerei alla soggettività, al magma di sensazioni che spurga da una visione, per cui la pianto, piuttosto mi permetto di augurare un buon cammino a Jóhannsson, dovunque egli sia.
Felicità
58 minuti fa
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