mercoledì 6 settembre 2023

Last and First Men

Deceduto all’apice della carriera (famoso il suo sodalizio con Denis Villeneuve e qui, comunque, qualcosa del monolite-astronave di Arrival [2016] si ritrova), il compositore islandese Jóhann Jóhannsson lascia in eredità un documento che flirta con la videoarte, Last and First Men (dubbi sull’effettivo anno di produzione, IMDb indica il 2017 perché risulta una proiezione al Manchester International Festival, ma praticamente tutti gli altri siti riportano all’unanimità il 2020) è costituito da riprese estatiche in un bianco e nero granuloso dei Spomenik, curiosi monumenti alla resistenza voluti da Tito disseminati in gran quantità sul territorio balcanico, accompagnate dal commento di Tilda Swinton che legge il testo di un’opera fantascientifica omonima del 1930 a firma dello scrittore britannico Olaf Stapledon. Non conosco abbastanza bene i lavori musicali di Jóhannsson da poter fare un paragone con il film da lui diretto (il mio primo, e ultimo, contatto che ebbi fu con l’album Orphée del 2016 che le mie orecchie piuttosto ignoranti in materia apprezzarono parecchio), qualcosa del tipo: “però!, guardando Last and First Men sembra quasi di sentire le sue dita che accarezzano il pianoforte”, ecco questo non posso dirlo, al limite posso rimarcare che l’opera sotto esame ha un cuore etereo, diluito in una contemplazione volutamente aliena (nel senso: gli obelischi slavi non sappiamo che sono tali, irrompono nel flusso estetico per incrementare il taglio sci-fi) che si porta appresso un trascorso riconducibile a certi ufo sovietici (qualcosa, a caso, proveniente dalla penna dei fratelli Strugackij), un film materico, fatto di pellicola, ed anche evanescente grazie alla sezione musicale (ovviamente curata da Jóhannsson insieme a Yair Elazar Glotman).

In generale il prodotto mi è parso di qualità e ha come punto di forza la coesistenza nello spazio-cinema tra il racconto orale che parla di un futuro lontanissimo, di esseri umani non più tanto umani, di escatologia e di altre robe enormi che stanno nell’universo, e le lente carrellate visive sulle costruzioni appartenenti al passato recente che nulla c’entrano con Nettuno o altri fantasiosi voli pindarici. La potenza dell’artificio, dell’assemblaggio di istanze divergenti spacciate per un unicum, è del resto una peculiarità della settima arte sfruttata da tanti registi (uno che subito mi sovviene, per rimanere nella stessa etichetta, è quel vecchio volpone di Herzog che aveva agito in maniera similare con L’ignoto spazio profondo, 2005), e Jóhannsson, anche se privo di esperienza sul campo, pare aver ben digerito la lezione trovando un suggestivo equilibrio tra parole, note e immagini. Però è giunto il momento del però: se cerchiamo un cinema di frontiera, che sappia proporsi attraverso forme innovative, che metta in difficoltà chi guarda, che sia capiente, generoso, ostico, intransigente, be’, ritengo che Last and First Men non possa essere il risultato di suddetta ricerca, e potrebbe apparire un paradosso perché il film avrebbe anche le caratteristiche appena elencate, se non fosse che, a mio avviso, è principalmente apparenza, non c’è vera avanguardia né vero studio, è patina, ben confezionata, attraente e intrigante se lo si vuole, ma pur sempre patina rimane. Avverto un abisso, ad esempio, con un’opera come Meteorlar (2017) che in fondo ha basi e sviluppo equiparabili, se dovessi spiegare la distanza tra i due film ricorrerei alla soggettività, al magma di sensazioni che spurga da una visione, per cui la pianto, piuttosto mi permetto di augurare un buon cammino a Jóhannsson, dovunque egli sia.

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