Dedico questa canzone e sono sincero
A tutti quelli in coatta trasferta verso un più stabile ristoro
E che stanotte dormono sotto Ponte Salario
(Flavio Giurato – Ponte Salario)
Per quanto ho potuto vedere fino ad oggi, di J.P. Sniadecki, qui, c’è ben poco, affiancando un film come The Iron Ministry (2014) a El mar la mar (2017) si noterà subito la differenza estetica che li permea, molto ruvido e immerso nella realtà il primo, decisamente raffinato e “artistico” il secondo, probabilmente la presenza di un altro regista, Joshua Bonnetta, ha contribuito a far imboccare al documentario (però: etichettarlo così è sminuente) una direzione più curata (o almeno questa è la sensazione che se ne ha), ad ogni modo, comunque siano andate le cose, l’oggetto filmico che per un’ora e quasi quaranta minuti si distende davanti ai nostri occhi è un prodotto dalla qualità elevata, un valido punto di incontro tra sforzo autoriale e ingrandimento politico. Lo spazio di movimento è il deserto di Sonora, lo stesso territorio che Roberto Bolaño ha usato per ridisegnare i confini della letteratura contemporanea, e guarda caso è di una frontiera che la pellicola tratta, quella che ogni giorno, pardon ogni notte, decine di messicani tentano di varcare per entrare negli Stati Uniti. Questa transizione clandestina, questo passaggio drammatico ed inumano a noi è totalmente celato, in nome di un afflato laterale, la coppia registica preferisce concentrarsi su altro, sui dettagli, oltre che, e va sottolineato, sulle parole. Il film ha una struttura ricorsiva composta da blocchi alternati: a sequenze che vagano errabonde tra le colline di sabbia e che mostrano quali tracce sono rimaste della traversata, corrispondono degli stacchi in nero accompagnati dalle testimonianze di chi sta al di qua o al di là della linea. A me un tale avvicendamento è parso fruttifero, la non immediatezza del “tema migranti” (del resto non se ne vedrà praticamente nemmeno uno) è un plus a cui dire grazie perché evita di scivolare nella retorica, inoltre tutto l’apparato formale è una meraviglia che non andrebbe persa.
Assistendo a El mar la mar mi è venuto di farvi un indovinello: cosa può avere in comune un’area desertica, brulla e mezza disabitata nel sud degli USA con le calde acque del Mediterraneo tra la Sicilia e la Libia? Facile: la tragedia. Seppur ai poli opposti del globo terracqueo, è ipotizzabile che si siano verificate in questi due contesti diversi storie di identica disperazione: morire affogati, morire di stenti, il filo che lega la triste epopea del migrante, ovunque egli sia, è la principale narrazione della nostra epoca e il cinema, al pari delle altre arti, ma soprattutto il cinema con la sua forza pervasiva, è un mezzo che accoglie e irradia come dio comanda l’incandescente questione, lo hanno fatto in parecchi prima di Bonnetta e Sniadecki e altrettanti lo faranno in futuro, e se pur saranno delle minuscole gocce speriamo di cuore che non potranno essere fermate da un muro di cemento e ignoranza. Tuttavia sapete che c’è? A proiezione conclusa non riesco ad inquadrare il film soltanto da una prospettiva sociale, in fondo il lavoro sotto esame è un Navajazo (2014) che cazzeggia di meno e che ama esplorare l’ambiente circostante. Si ricevono in dono potenti istantanee che nei fatti non si inseriscono nel filone saliente, l’esistenza di una panoramica con degli arbusti in fiamme, di un treno fermo sul binario, di piante grasse, di uno sciame di pipistrelli (grande scena, mi ha ricordato quella degli uccelli in Leviathan [2012], e infatti Sniadecki e la Paravel hanno collaborato insieme nel 2010 con Foreign Parts), di curiosi soggetti umani che svaniscono dentro una pozza tra le rocce, sono fotografie di un album sulla cui copertina è stampato a chiare lettere:
The Sonoran Desert
e il sottotitolo che potrebbe dire qualcosa del tipo “robe che si trovano a siffatte latitudini”, perché la preponderanza del luogo sul topic migratorio pian piano si fa sentire, si ha una coesistenza di entrambe le istanze perché comunque non manca l’insistenza sulle impronte lasciate dai “viaggiatori” (bottiglie di plastica, taniche, stracci, zaini, cellulari, ecc.), briciole di un Pollicino che non vuole tornare a casa, però non sono capace di scindere né emotivamente né concettualmente il set ripreso con mirabile maestria da quello che vi accade all’interno. La concertazione nell’insieme è ottima e ha nell’epilogo un picco di poesia elettrica, cupa e temporalesca.
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