Sarebbe un peccato inoltre considerare il film soltanto come una carrellata su dei reietti messicani, negli anni di emarginati nella settima arte ne abbiamo visti tanti, dall’America di Dark Days (2000) e Below Sea Level (2008) passando per la cimiteriale coppia post-sovietica Le palme delle mani (1994) – L’ultimo posto sulla Terra (2001) insieme, ovviamente, a decine e decine di altri titoli citabili, le anime perdute di Navajazo non sono così diverse dalle loro colleghe (in ballo abbiamo sempre questioni di droga, violenza, prostituzione, ecc.), ma non estendere lo sguardo oltre un rigattiere di giocattoli polverosi o un pornografo impegnato in un bizzarro progetto significa non cogliere il succulento potenziale della pellicola. I ricami di Silva sul girato ampliano (e non di poco) la capacità polmonare del film, basta un incipit magistrale che parla di una non precisata fine del mondo a mettere in moto dei meccanismi suggestionanti, sensazioni che si ripresentano ad ogni raccordo tra un segmento e l’altro, sono iniezioni stranianti che provocano ulteriore scompiglio, al pari dell’impiego di temi musicali discordanti (si vedano gli amplessi accompagnati da una ninnananna), o all’inserimento di lacerti d’un altro film, probabilmente di bassa lega, che si mimetizzano nel flusso principale. La ricchezza di Navajazo brilla nella sporcizia di cui si occupa e soprattutto nel metodo impiegato per raccontarcela, sfrontato e creativo, è una di quelle frustate inattese che mi invogliano più che mai a cercare nuovi film, nuovi registi, nuovi confini da provare a oltrepassare.
lunedì 9 ottobre 2023
Navajazo
Il
perforante digitale dell’esordiente Ricardo Silva si incunea in un
mondo al confine: il luogo è Tijuana,
città messicana ad un passo dagli Stati Uniti, la dimensione è
purgatoriale, ad uno sputo dall’inferno. Navajazo
(2014) è un gran film perché esplora la condizione borderline dei
soggetti ripresi con ammirabile autorialità, certo “fare notizia”
sbattendo sullo schermo un pompino o un tossico che si fa in vena è
facile, ma è proprio perché pur facendo dell’esibizione il
proprio mantra Silva riesce a lavorarci sopra con arguzia
trasformando il profondo degrado che lo circonda in qualcosa di vivo
e sgusciante, esempio: la scena della fellatio, piuttosto
annichilente per situazione e contesto, assume una colorazione
sardonica quando compare una scritta che fa il verso ai video di
Crack Whore Confessions. Sì, sgusciante, Navajazo
è
un’opera priva di un centro narrativo e per questo motivo
disorienta, è l’arrivare poco dopo un’esplosione con ancora
miriadi di frammenti sospesi nell’aria, e nella devastazione
generale è possibile scorgere delle schegge che ci graffiano,
arrivano e vanno, feriscono, tagliano, eppure è un dolore che Silva
sa rendere piacevole senza gratuito compiacimento, è il costituirsi
di un equilibrio fragilissimo, al limite, sicuramente non per tutti,
una frontiera della realtà e ciò che viene dopo, una zona
indeterminabile che ha una, e una sola sicurezza: l’idea di cinema
del regista fatta di concetti che partono dal concreto (insomma, pare
che a Tijuana ci sia un bel casino) per impennarsi altrove, nei
misteriosi anfratti dell’esperienza visiva.
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