Una donna e
un cane nel bosco, siamo nelle zone cinematografiche di Wendy and Lucy (2008)? Sì e no perché First Cow (2019), la penultima
fatica di Kelly Reichardt, inizialmente poteva dare l’impressione
di riprendere quell’idea di transizione geografica e interiore che
ha caratterizzato una discreta parte della sua carriera, però una
volta che il cuoco e King-Lu raggiungono il villaggio non c’è più
traccia di un’avventura in sottrazione, nel senso: non vi è uno
spostamento fisico dei personaggi in scena ma rimane, in maniera
tenue, la loro esplorazione umana in continuità con una poetica che
si è sempre basata su un cinema a misura d’uomo, o meglio: a
misura di donna. Ed è paradossale che qui, invece, di donne non ce
ne siano, però, come saggiamente riportato dal commento di Raffaele
Meale su Quinlan.it (link) le quote rosa sono saldamente nelle mani
di una figura che senza rendercene conto è davvero centrale: la
vacca. L’animale è il fulcro silente del racconto imbastito dalla
Reichardt nonché serratura adibita ad aprire la porta-film su
riflessioni legate ad una realtà economica e sociale che, sebbene
alle origini, dimostra già di essere assetata di profitti e
comandata da malvagi ometti dotati di archibugio. Inoltre l’assenza
di un perno muliebre è compensato dalla presenza di Otis, uno chef
gentile (basta prendere il suo soprannome: Cookie) che in una delle
primissime scene dimostra una bontà fuori dall’ordinario (una
lucertola apparentemente morta ritorna in vita grazie al suo tocco),
sebbene sia incontrovertibilmente un uomo ha ben poco da spartire con
gli altri simili, il che, per il suo essere dimesso, sottilmente
smarrito e in buona sostanza solo lo rende un protagonista
reichardtiano come da tempo non se ne vedeva perché i due
lungometraggi precedenti, Night Moves (2013) e Certain Women (2016), accusavano l’assenza di un cardine col quale,
prendete con le molle la seguente espressione, empatizzare.
Il dialogo
più stretto tra First Cow e
le opere del passato lo si ha con Meek’s Cutoff
(2010), e non è solo la medesima tendenza a ripercorrere le strade
di un’America ancora in embrione, quanto il precipitato
accomunabile che poi è il sunto del cinema che la regista nata in
Flordia professa fin dagli albori, parliamo di un’umanista, una che
dà ancora peso a concetti quali l’amicizia o la fratellanza.
Notiamo, ad esempio, che nel film del 2010 un indiano aiutava la
carovana dispersa nel deserto, in quello del 2019 sono ancora dei
nativi del luogo ad aiutare i due fuggitivi (e il segmento con Cookie
moribondo ha sfumature simil-oniriche), ma al di là di tali dettagli
è chiaro che il legame tra Otis e King-Lu sia il succo dell’opera
perché primo riguarda due soggetti nettamente divergenti che
comunque condividono una specie di reciproca emarginazione, e
secondo, nell’inquadramento parabolico del racconto, i due, oltre
il business ed il guadagno, sono davvero amici, prova ne è l’ellissi
funerea che ce li restituisce duecento anni dopo sotto tre metri di
terra, uno affianco all’altro (probabilmente uccisi da quel
ragazzetto col fucile, sì, ma King sarebbe potuto andarsene via con
i soldi viste le pessime condizioni del socio, cosa che invece non
accade). La Reichardt ci trasmette questa storia in un anomalo
formato quadrato con l’apprezzabile rigore che la contraddistingue,
asciuttezza e minimalismo coronano il ritorno di una regista che gli
Stati Uniti farebbero bene a ringraziare.
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