The Crying Conch
(2017), che arriverà tre anni dopo, pur essendo un cortometraggio
presenterà una fattura diversa rispetto a I’ve
Seen the Unicorn
(2014), non dico migliore o peggiore (sì, presumo migliore, ma non
ne faccio una gara), però sicuramente più dentro ad un certo cinema
autoriale d’oggidì, festivaliero quanto si vuole ma comunque, a
tratti, piacevole. Qui il quadro in cui Vincent Toi si muove è
quello del documentario simil-etnografico, il regista gioca in casa
occupandosi di una manifestazione sportiva tipica della Repubblica di
Mauritius, una corsa equina chiamata Maiden Cup, strascico della
colonizzazione britannica terminata nel 1968, e, non a caso, il film
si apre su delle immagini d’archivio relative alla cerimonia di
indipendenza della nazione insulare. Sulla carta mi aspettavo un
approccio sociologico e magari anche storico con qualche licenza
contemplativa/astraente, nel concreto l’opera ha delle modalità
espositive nonché realizzative abbastanza basiche, il taglio dato
dal filmmaker è di tipo riprendo-la-realtà-e-poi-ci-lavoro-sopra,
che poi è il metodo di praticamente tutti coloro che campano con la
settima arte, ma per I’ve Seen
the Unicorn la
cosa si vede e si sente in modo forse fin troppo chiaro. Tutto è,
diciamo, sotto controllo, nel depliant illustrativo mauriziano si
coglie una lieve ricerca di coralità che rimbalza da un ragazzino
con il sogno di diventare fantino, un fantino irlandese
professionista, un muratore rasta che ama scommettere sui cavalli e
altri soggetti connessi in qualche maniera alla competizione, nella
sua semplicità questa ragnatela di testimonianze può anche andare,
va da sé che non ci si può aspettare di trovare altro che non sia
ciò che vediamo.
Che
poi le intenzioni di Toi credo di averle carpite, l’obiettivo era
di fornire il ritratto di un Paese che, seppur piccolo e sperduto in
mezzo al mare, fa parte del nostro tempo e di come tale Paese vive
tutt’ora il suo periodo post-colonialista, di come, in sostanza,
stanno le cose a Mauritius, e per fare ciò ha deciso di utilizzare
la lente di ingrandimento fornita da un evento ippico in apparenza un
po’ anomalo su un’isola del genere, e che invece è assolutamente
radicato nella cultura del luogo. Le eventuali connessioni con il
passato al pari di quelle con il presente non fanno scattare la
celeberrima scintilla, il film procede nel proprio solco dall’inizio
alla fine senza riservare particolari sorprese, né negative né
positive. Considerando che si tratta di un debutto quanto asserito
dal sottoscritto va ben ben filtrato, più che interessante lo
definirei curioso per l’argomento affrontato perché ci mostra un
posto famoso per noi occidentali soltanto in ambito vacanziero, resta
che dalla mia posizione di appassionato cinefilo speravo che Toi
avesse già un tocco distintivo maggiormente marcato.
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