martedì 17 ottobre 2023

Sapatos Pretos

I primi venti minuti di Sapatos Pretos (1998) sono molto simili a quello che poi sarà Noite Escura (2004), ovvero un set occluso in un solo ambiente, a sto giro una sala da ballo, dove João Canijo rimbalza in maniera forsennata con la sua mdp da un personaggio all’altro. Poi, una volta usciti dal locale, si entra in un altro spazio parimenti angusto, mentale e non fisico, da cui non si uscirà mai: una relazione avariata tra un gioielliere e sua moglie Dalila. Sembra abbastanza evidente che al regista portoghese interessino fin dagli albori dei rapporti sentimentali in via di disfacimento, amori al capolinea, tradimenti, relazioni troncate, e una tendenza ad impepare le varie situazioni con risvolti (leggermente) dark, il punto è che in questi lavori giovanili tali tematiche di studio vengono approcciate in modo... strano, alla base pare esserci un’impostazione teatrale con un registro recitativo fortemente ostentato (a volte fin troppo), ma la resa che si ottiene ha un che di laterale e non di frontale, pur parlando di oggetti se vogliamo non distanti da uno sceneggiato televisivo il risultato naviga lontano da un possibile piattume così come è lontano da una forma di realismo che si potrà rintracciare in Blood of My Blood (2011) o É o Amor (2013), boh, non semplice farsi un’idea definita, forse qui subentra anche la mancanza di una conoscenza approfondita della scena lusitana 90’s ma se mi chiedessero quanto vale la pena recuperare gli esordi di Canijo risponderei in tutta onestà di indirizzare lo sguardo altrove.

In Sapatos Pretos spicca una lodevole cura della scenografia casalinga con un appartamento coniugale che è sempre inzuppato nell’oscurità e in cui l’incongruenza aleggia (la tv sintonizzata su canali angolofoni), non male inoltre l’applicazione di un protocollo drammatico che ha il picco in una violenza sanguinolenta ai danni della donna. Però, al pari di Ganhar a Vida (2001), ho trovato nella pellicola sotto esame il medesimo macroscopico difetto, ossia una scrittura che in termini di narrazione non va. Cioè, stringi stringi qua parliamo di un banale triangolo amoroso con virata nel nero. C’è dell’altro? A chi scrive è parso di no. Passi la costruzione che porta all’uxoricidio, tuttavia a fatto avvenuto il film si affloscia e tenta, invano, di compiere una giravolta esibendo il ruolo doppiogiochista di Dalila, un’operazione che non rende e aumenta il tasso di stanchezza con cui ci si trascina verso il finale dove, tra l’altro, si vuole ulteriormente rimarcare il ruolo di femme fatale che manipola i suoi uomini (sarà il turno del poliziotto) ma che non riesce a fare altrettanto con noi spettatori. Allora, per riallacciarmi alla domanda che chiudeva il paragrafo soprastante, se proprio si deve, l’unico titolo di Canijo pre-2011 che ha solleticato qualcosa nel sottoscritto è stato Filha da Mãe (1990).

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