mercoledì 4 ottobre 2023

Ghost Town Anthology

Il da tempo auspicato ritorno di Denis Côté ad un ambiente cinematografico provinciale che tanto aveva ben esposto in Curling (2010), si compie in Répertoire des villes disparues (2019) che, appunto, riporta lo spettatore nel Québec più profondo, tra gelo e grigiore nel cielo. Se vogliamo partire da un paragone, voltandoci indietro al precedente lavoro di fiction del canadese, si può tirare un piccolo sospiro di sollievo, Boris Without Beatrice (2016) era troppo brutto per essere vero e Ghost Town Anthology si riappropria di una visione autoriale con un minimo di personalità, infatti, a prescindere dal contesto (anche linguistico) del film, Côté lavora sullo st(r)ato concettuale e sulla natura che sostanzia l’opera, al contempo punta molto su un’atmosfera fatta di tensione e di non detto che rimanda ad un perturbante che il canadese ogni tanto in carriera ha lambito (un micro esempio è il cortometraggio May We Sleep Soundly, 2015). La cappa funebre che incapsula questa cittadina innevata ha un suo grado di credibilità, le motivazioni sono forse più d’una e bisogna ricercarle sia nello stile asciutto della regia che a volte va di camera a mano a caccia di realtà (e non sono neanche male degli inserti paesaggistici granulosi in bassa qualità), sia in un immaginario che tende ad una esplorazione di anfratti piuttosto oscuri (si vedano gli inquietanti bambini mascherati). La coralità della narrazione, né prolissa né troppo esigua, si concentra sugli effetti causati dalla morte improvvisa di Simon, gli squilibri emotivi della famiglia vanno ad equipararsi con quelli della società circostante, anche se, fino ad un certo punto, non vi è, volutamente, la piena comprensione degli eventi, si intuisce che qualcosa stia accadendo e la capacità di Côté nel non mostrarlo a chiare lettere rimane un punto a suo favore.

E anche quando, seppur mantenendo una diffusa nebulosità, il succo della questione sale a galla, non vi è mai uno scioglimento, una risoluzione, un’accelerata verso qui o verso là. Ciò è bene però è obbligatorio spendere due parole sulla svolta soprannaturale impressa da Côté che è una svolta legittima sul piano teorico ma non efficace su quello realizzativo. Senza girarci intorno, noi, assidui frequentatori di certo cinema, un Giorno del Giudizio con queste caratteristiche lo abbiamo già visto, l’idea di dare ai redivivi un’inquietante immobilità è veramente troppo troppo simile a Les Revenants (2012-2015) e quindi a They Came Back (2004), possiamo sì rintracciare degli elementi che distinguono Côté dai suoi colleghi, ci mancherebbe, la forma del quebechiano non è esportabile in una serialità né si negano degli approfondimenti drammatici non convenzionali (il tocco del regista è obliquo in ogni settore), però stringi stringi, quello che rimarrà nella memoria, la sostanza visiva, ossia il vedere la ricomparsa di gente defunta che se ne sta ritta e impalata in mezzo a dei campi ad osservare chi è ancora vivo, non riesce a scrollarsi una derivazione che fa inevitabilmente scendere il livello di gradimento. Non pago Côté infila dentro il cliché della suonata del paese che, esattamente per la sua condizione, riceve un’illuminazione divina che ricorda, vista l’inaspettata levitazione, il vecchio Dumont senza però nemmeno sfiorare la trascendenza che ne legittimerebbe il verificarsi in scena. Il cinema di Denis Côté si conferma davvero un cinema strano, sempre a metà di un guado che lo rende sia prevedibile che incatalogabile, ama vagabondare nei generi senza strutturarsi in una riconoscibile identità, magari, penserà l’autore, la mia identità è esattamente il non averne una sola e immutabile, sarà, ma quel sapore di incompiutezza che si è presentato in molte recenti occasioni non ce lo leva nessuno dalla bocca.

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