mercoledì 11 ottobre 2023

Tales of Two Who Dreamt

Nicolás Pereda è un nome che circola da tempo nel panorama autoriale, da queste parti non è mai stato affrontato ma da quello che ho letto altrove credo proprio sia uno che sa il fatto suo. Io non mi lancerò in una retrospettiva per mancanza di energie mentali, però, giusto per non voltargli completamente le spalle, mi focalizzerò su un satellite del suo cinema, ovvero le produzioni della moglie Andrea Bussmann. Già il video-sortilegio Fausto (2018) girato in solitaria mi aveva oltremodo incantato, ora questo Tales of Two Who Dreamt (2016), co-diretto col marito, si profila come un’ottima premessa che vale assolutamente la pena guardare. Le sinossi che girano in Rete a proposito del film, stringati compendi che penso siano la traduzione di una qualche presentazione festivaliera, pongono l’accento sull’aspetto sociale dell’opera perché ci troviamo in Canada, in un quartiere popolare costituito da quegli enormi palazzoni-alveare che si ergono in tutte le periferie del mondo, dove degli immigrati di etnia rom provenienti dall’Ungheria sono in attesa di ricevere asilo in terra canadese. Sì, è indubbio che vi sia tale elemento, ma è appena uno start, un pretesto, che permette al duo registico di mettere in scena la loro feconda idea di settima arte. La meta preposta, e raggiunta, riguarda la costruzione di una storia, alla quale se ne collegano altre minori, che ha una base orale, quasi una favola che due coniugi si raccontano all’interno dell’appartamento in cui vivono, e, attraverso la magia della cinepresa, la fiaba, a mio parere dai palesi rimandi kafkiani perché si ha una trasformazione dall’umano all’animale con susseguente rifiuto dei genitori bilanciata dalla solidarietà della sorellina, prende vita sullo schermo.

Parliamo di un saggio sulla capienza di ciò che viene comunemente denominato “reale”, concettualmente il campo dove operano Bussmann e Pereda non è nient’altro che una variazione sul tema del film-nel-film, però bisogna riconoscere che il congegno studiato è privo di pesanti arrovellamenti ed anzi si pone a noi spettatori in modo leggero e per nulla invasivo. L’eterna diatriba realtà vs. finzione è un ring dove le due istanze si fronteggiano senza scontrarsi, c’è una specie di infiltrarsi reciproco e impercettibile, una vicendevole iniezione che da una sequenza all’altra rompe, ricostruisce e rirompe i confini dell’artificio. È interessante il procedimento con cui vengono esposte le vicende che riguardano Alex, il bambino uccello, in un atto di smantellamento dell’apparato finzionale gli autori fanno leggere l’ipotetica sceneggiatura a quelli che potremmo considerare le loro rispettive proiezioni nella diegesi (gli sposi gipsy), il verificarsi dei suddetti avvenimenti, diluito in ulteriori trasognanti accenni (un cane abbandonato sul poggiolo; un grosso serpente che si aggira nel condominio), a volte anticipati e a volte posticipati dalla narrazione interna, contribuisce a fortificare una dimensione che flirta con l’onirico, il che, se ci pensate un attimo, è un risultato sorprendente visto che la materia tratta è la quintessenza della concretezza. Quindi, sento di dover elogiare pubblicamente Historias de dos que soñaron, quando una visione che si appoggia su assiomi semplici sa ascendere in verticale fare una riverenza è d’obbligo.

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