Quello che si rivela tra un pugno allo stomaco e l’altro sono lampi quasi onirici, miraggi che forse ci restituiscono un George vicino alla trascendenza dell’immagine, al superamento di una grammatica già oltremodo personale. C’è un corredo musicale molto presente (sbaglio o è in assoluto il film che presenta tale caratteristica?) e ci sono delle fughe estetiche che muovono l’opera in zone apparentemente lontane da un corteo di studenti o da dei poveri cristi che dormono all’addiaccio. Vorrei citare la sequenza dei girasoli, una penetrazione notturna in un campo di fiori appassiti accompagnata da un sonoro distorto e industriale che si conclude sul corpo di un essere umano nudo rannicchiato sul terreno. È una scena di rara potenza, ok, ed è una scena estemporanea, slacciata dal contesto, e non è la sola!, vado a memoria: delle mani si contorcono nell’oscurità; la testa di un pesce morto è ripresa da varie angolazioni; il tipo della Guinea fa del beatbox. La presenza di queste parentesi semi-indipendenti è funzionale al rafforzamento di un flusso visivo che in certi punti, allora, non ha nemmeno necessità di essere esclusivamente frontale, di mostrare solo quello-che-accade, era una cosa che si verificava già nelle pellicole precedenti di George, ma in Paris est une fête l’ho percepita in maniera davvero efficace, un tentativo, riuscito, di dilatare quei segmenti contemplativi o comunque non indispensabili allo studio principale per stimolare le antenne della suggestione e ampliare lo spettro del vedere. Sì, avremmo bisogno di molti più Sylvain George nel cinema.
giovedì 12 ottobre 2023
Paris est une fête - Un film en 18 vagues
La verità è
che tutti noi, o almeno coloro i quali credono ancora che il cinema
possa avere una valenza etica e quindi politica, avremmo bisogno di
molti più Sylvain George di quanti ce ne sono in giro, anche se poi,
purtroppo o per fortuna, ce n’è soltanto uno. Paris est une
fête - Un film en 18 vagues
(2017) è il coerente prosieguo di un percorso, anzi di un impegno
registico di elevatissima caratura, se esiste un filmmaker, oggi,
capace di coniugare una visione brutale della realtà circostante con
delle brecce liriche questo è l’autore francese classe ’68, qui
il suo occhio, sempre in bianco e nero e sempre materico, granuloso,
metallico, naviga per un arco di tempo di circa due anni nel
tempestoso mare parigino, come un Ulisse moderno si mette a cantare
le storie di chi incontra e rifacendosi alla formidabile coppia
Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre)
(2010) + Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom)
(2011) ecco nuovamente che l’attenzione è riposta sui migranti,
non siamo più a Calais ma nel cuore dell’Europa, in una piazza
cittadina convertita in un improvvisato campo nomadi, oppure
cerchiamo di riscaldarci con un ragazzo guineano dalla pelle
impeciata, tenebra, buio profondo, pozzo: racconta di sé e di ciò
che ha vissuto, è una narrazione che potrebbe calzare ad ogni
rifugiato che sfioriamo, parole dette, scritte in inglese su un
diario, la nostalgia di casa, la paura, la morte. Nella Parigi di
George non c’è spazio per chiccosi bistro o ragazze in bicicletta
dalla sciarpa svolazzante, è territorio di violenta protesta, tre
sono le manifestazioni riprese e in ognuna di esse il regista si e ci
getta direttamente negli scontri con la polizia, altra vertigine di
urla, botte e sirene delle ambulanze, altra concitata apnea,
sott’acqua, verso il fondo.
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