Di tutti i
lavori firmati da Gustavo Jahn e Melissa Dullius El Meraya
(2018) è quello che ha un precedente più che evidente: Triangulum
(2009). Nuovamente il set dove si sono svolte le riprese è l’Egitto
e ancora nuovamente l’attenzione si focalizza su un trio di persone
(idealizzato in una costellazione denominata, appunto, triangulum)
che si muovono, non solo fisicamente, a Il Cairo. Il movimento pare
essere al centro dello studio compiuto dalla coppia brasiliana,
parliamo di spostamenti sia temporali (again:
si fa riferimento a non chiari – e ti pareva – viaggi nel tempo)
che spaziali (basta attraversare una strada trafficata per arrivare
alla meta), un flusso di cose che scorrono via esattamente come fa
l’acqua di un fiume o la presenza di esseri umani sopra ad un
ponte, la trattazione, in sostanza, di un concetto inflazionato quale
è il Panta rei eracliteo, ma ben occultato nell’ermetismo dei
registi che anche qua non viene meno. Tuttavia, vuoi forse per aver
preso confidenza con l’arte del duo vuoi perché El
Meraya arriva dopo anni di progetti e sperimentazioni che hanno
affinato la loro idea di cinema, al sottoscritto è parso che il
film, pur restando oggetto a sé, possegga una sua accessibilità,
sicuramente da constatare e approfondire, però sempre meglio che il
vuoto assoluto del 90% della robaccia che ci tocca vedere.
Da
parte di Jahn e Dullius la continuità estetica con le opere
precedenti è assoluta, il formato quadrato è ormai un marchio di
fabbrica al pari dell’utilizzo di filmati d’archivio inseriti in
un girato dalle tonalità cangianti. Al solito, le immagini
recapitate sono un concentrato stordente che ha la qualità di
apparire vecchissimo e modernissimo all’unisono. E questa
incapacità che ci assale di datare El
Meraya
(ma vale anche per il resto della filmografia, ripensiamo a Muito romântico,
2016) è, in una ardita interpretazione globale, l’effetto della
sua essenza, specchio di ciò che tratta, ovvero la transizione. È
un film che si muove, dinamico, che trapassa le leggi cronologiche,
che non ha età perché non nasce né muore, in costante ricircolo
creativo trascende le coordinate dell’esperire, e come per In the Traveler’s Heart
(2013) alla fine – che è una buona fine – nelle briciole emotive
che restano risuonano sensazioni di passaggio: siamo viaggiatori,
siamo spettatori.
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