lunedì 30 ottobre 2023

The Last of Us

Non credete a ciò che si legge in giro, Akher Wahed Fina (2016), primo lungometraggio di finzione del regista tunisino Ala Eddine Slim passato anche a Venezia ’16, è un film che si comprende piuttosto agilmente perché ha un’evoluzione molto più lineare di quanto in realtà mostra. Il punto di partenza è palesemente un richiamo alla contemporaneità, e, devo ammetterlo, anche io ci sono cascato, nel senso che ipotizzavo uno sviluppo esclusivamente sulla base di tale avvio cronachistico attraverso la presenza di un macro-tema (l’immigrazione in Europa) affrontato con metodo autoriale per l’intera durata dell’opera, sicché la prima mezz’ora introduttiva, oltre a farci capire il mood della storia (i dialoghi sono assenti), si impegna a rappresentare una delle tante odissee che si consumano qualche chilometro più a sud di dove abitiamo noi, e lo fa con discreto piglio scaraventando il protagonista N in un paesaggio che un giorno è lunare e quello dopo, a seguito di una fuga (discreta l’improvvisa aggressione sul furgone) e di un altro viaggio nel viaggio, è urbano in una qualche città del Nordafrica. C’è del mestiere nella mano di Slim, l’attenzione agli scorci paesaggistici, i contrasti diurni/notturni e la varietà degli angoli di visuale fanno di The Last of Us un prodotto di medio-alta fattura, ed io ero pronto ad analizzare la pellicola senza mai scostarmi da una visione che dialogasse in maniera serrata con le notizie dei telegiornali, invece dopo il lungo preambolo N sale su un guscio di noce per compiere una traversata che si preannuncia impossibile. Qui il film cambia pelle, è innegabile, ma superato il disorientamento iniziale, continuo a ritenere che la progressione della vicenda sia piana e altamente accessibile.

L’importanza della sequenza sulla barchetta è sottolineata dall’inserimento di alcune didascalie dall’aperta interpretazione, è condivisibile vedere nel tragitto sull’acqua una traslazione di innumerevoli altri tragitti in chiave astratta. L’arrivo sulla terra non-promessa dà il via ad un mutamento filmico, stop alla tragica epica odierna a beneficio di un racconto che punta alle radici, temperato da un corredo simbolico con vista sulla trascendenza. D’improvviso un ricordo emerge dalle nebbie del tempo: Naufragio (2010) di Pedro Aguilera, pregevole stoccata dalle sembianze dumontiane (quando Dumont faceva un certo tipo di cinema), che ha in comune con The Last of Us un simile movimento dal concreto al metafisico lasciandosi dietro una scia di mistero. Forse Aguilera arriva più in alto, ma anche Slim si stacca dal suolo, il procedimento si accende verso la fine, prima abbiamo una porzione illustrativa che a mio avviso mette in scena la proiezione futuribile di N, ovvero M, il ragazzo è, e sarà, l’eremita barbuto, in questo territorio libero dalle leggi della razionalità è piacevole abbandonarsi a intuizioni esegetiche non constatabili, per cui assistendo alla morte del vecchio potrebbe compiersi un passaggio di testimone (al di là dell’età anagrafica, i due per tratti somatici, capigliatura e vestiario si assomigliano molto), il realizzarsi di un nuovo sé, sempre, però, in una dimensione incerta, quasi purgatoriale. Giunti alla sostituzione dei ruoli sullo schermo, è difficile intendere ancora N come un profugo, la questione pare dissolversi in favore di una discesa o ascesa verso l’originarietà, un precipitato di robe universali e primitive. Mi sta bene, non ho molto da obiettare nei riguardi della piega che la narrazione prende, se pensiamo all’uomo come il fantasma di un corpo sul fondo del Mediterraneo in cerca di una definitiva liberazione terrena il finale con la disgregazione weerasethakuliana riconcilia l’istanza della carne con quella dello spirito.

E quindi, il debutto nella fiction di Ala Eddine Slim merita il nostro sguardo? Credo di sì, tuttavia mi permetto di emettere un’avvertenza: alla sopraccitata chiarezza del film velata da un’enigmaticità che si risolve senza sforzi erculei, aggiungo che questo cinema risulta troppo “pulito”, il motivo è dato dal fatto che comunque trattiamo un registro di totale finzione e la cosa si sente e si vede, se la corrente d’artificio si fosse prosciugata nel canyon del reale ne avrebbe giovato l’intero impianto, allora sì che la prima parte sarebbe risultata maggiormente pregna di disperazione, solitudine e sconforto mentre nella seconda gli slanci surreali (la palla di luce: affascinante) avrebbero fatto decollare il tutto. Con serenità aspettiamo Tlamess (2019), se ne dice sia un gran bene che un gran male, i presupposti sono ottimi.

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