Anatomicamente Quelque chose d’organique è idealmente diviso a metà, la scelta di una bipartizione sarà un topos con un certo peso nella prima fase registica del transalpino e Tiresia (2003) sta lì a ricordarcelo, nel contesto filmico sotto esame le cose sono meno nette e non c’è un vertiginoso ribaltone del racconto, ciò che accade è piuttosto un doppio focus che prima riguarda lui e poi lei, in entrambi i casi vengono inseriti i flussi di coscienza in formato off che accompagnano le immagini. Non è una suddivisione simmetrica, cioè non mi è sembrato che le due porzioni siano l’una lo specchio dell’altra, anzi è come se vi fosse uno sviluppo che procede per rovescio, per Paul il destino è di perdere, un figlio malato, un padre con il visto turistico scaduto, per Marguerite, al contrario, di acquisire, un’amicizia, un nuovo amore. Forzando un poco l’esegesi, si potrebbe leggere un ulteriore marchio di Bonello nello stravolgimento delle identità umane che va a riprendere (cfr. il mio favorito: House of Tolerance, 2011), marito e moglie dai ruoli in via di sgretolamento (la ragazza peraltro alla domanda che mestiere fa risponderà come se parlasse il coniuge...), ed escludendo due passaggi frettolosi verso il finale dove Marguerite abborda uno sconosciuto e a sua volta viene avvicinata da un gruppetto di uomini ai quali si concede, il percorso esistenziale che si dispiega sullo schermo, vuoi perché un po’ etereo, vuoi perché un po’ sbalestrato non lascia a bocca asciutta. Ritornando un attimo al preambolo, è interessante come esso sappia legarsi e al contempo rimanere sospeso con l’impianto generale, se notate la stanza dove si vede il cadavere è la medesima dell’hotel, tuttavia la conclusione mostra chiaramente un ricongiungimento, è “solo” un’arricchente parentesi onirica che si amplificherà di molto in produzioni come De la guerre (2008) o il recente Zombi Child (2019).
Sostiene Pereira
4 ore fa
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