domenica 1 ottobre 2023

Quelque chose d’organique

Nella filmografia di Bertrand Bonello questo titolo mi ha sempre incuriosito per due motivi: l’indeterminatezza che suggerisce e per la parola “organico” che in italiano, ma penso anche in francese, si associa a qualcosa di composto, strutturato e soprattutto vivo. Ora che finalmente Quelque chose d’organique (1998) è finito tra la mie mani e davanti ai miei occhi, ho avuto conferma del presagio letteral-titolistico di cui sopra, parliamo di un film che, seppur girato in età giovanile, possiede elementi antididascalici tipici dell’autore, la sua visione di un cinema laterale, ai bordi dei significati ha embrioni anche qui dove nella radiografia di una coppia emigrata in Canada le lastre che il dott. Bonello effettua non danno grandi informazioni nemmeno se messe sopra un negativoscopio, quel senso di nebulosità, di astrattezza, quel qualcosa, è un moto silente che non abbandonerà mai i personaggi in scena al pari di quelli che compariranno in futuro nel resto dell’opera bonelliana. Eppure, nonostante la vicenda non sia perfettamente inquadrabile, della materia ribolle, un fluido viscoso, che potrebbe essere dello sperma come del sangue, collega le vite dei due coniugi, magari è una mia ardita interpretazione ma a conti fatti la pellicola è confinata in un prologo d’impatto schizzato in rosso e un rapporto sessuale consumato sotto una tormenta di neve. Non è un lavoro completamente votato all’esplorazione di un legame sentimentale, almeno questa è la sensazione che emerge, ma è altrettanto necessario ammettere che il fulcro di tutto si situa nella vicinanza/distanza (e ancora l’incipit è in tal senso esemplare) tra Paul e Marguerite, nell’incomunicabilità che aleggia, nella difficoltà di trovare un punto di contatto.

Anatomicamente Quelque chose d’organique è idealmente diviso a metà, la scelta di una bipartizione sarà un topos con un certo peso nella prima fase registica del transalpino e Tiresia (2003) sta lì a ricordarcelo, nel contesto filmico sotto esame le cose sono meno nette e non c’è un vertiginoso ribaltone del racconto, ciò che accade è piuttosto un doppio focus che prima riguarda lui e poi lei, in entrambi i casi vengono inseriti i flussi di coscienza in formato off che accompagnano le immagini. Non è una suddivisione simmetrica, cioè non mi è sembrato che le due porzioni siano l’una lo specchio dell’altra, anzi è come se vi fosse uno sviluppo che procede per rovescio, per Paul il destino è di perdere, un figlio malato, un padre con il visto turistico scaduto, per Marguerite, al contrario, di acquisire, un’amicizia, un nuovo amore. Forzando un poco l’esegesi, si potrebbe leggere un ulteriore marchio di Bonello nello stravolgimento delle identità umane che va a riprendere (cfr. il mio favorito: House of Tolerance, 2011), marito e moglie dai ruoli in via di sgretolamento (la ragazza peraltro alla domanda che mestiere fa risponderà come se parlasse il coniuge...), ed escludendo due passaggi frettolosi verso il finale dove Marguerite abborda uno sconosciuto e a sua volta viene avvicinata da un gruppetto di uomini ai quali si concede, il percorso esistenziale che si dispiega sullo schermo, vuoi perché un po’ etereo, vuoi perché un po’ sbalestrato non lascia a bocca asciutta. Ritornando un attimo al preambolo, è interessante come esso sappia legarsi e al contempo rimanere sospeso con l’impianto generale, se notate la stanza dove si vede il cadavere è la medesima dell’hotel, tuttavia la conclusione mostra chiaramente un ricongiungimento, è “solo” un’arricchente parentesi onirica che si amplificherà di molto in produzioni come De la guerre (2008) o il recente Zombi Child (2019).

Nessun commento:

Posta un commento