Ma ragioniamo velocemente sul possibile senso di Barba. L’evidenza che si profila è data dal fatto che i tre trogloditi siano i soggetti di un’evoluzione, o meglio, dell’illustrazione di un’evoluzione. In particolare uno del trio è il principale innovatore in materia tecnica, nel rapido avvicendarsi di situazioni vediamo un affinamento delle strategie di pesca, la scoperta del fuoco, della ruota, della fionda, l’utilizzo di un cannocchiale ante litteram, perfino (forse) il consumo di droga con il culmine in uno strappo dai toni... discotecari. C’è da rimarcare che tali dettagli improntati ad un miglioramento esistenziale non è che hanno una conferma nello spazio filmico, cioè: i tre, nonostante le abilità acquisite, continuano ad essere sempre gli stessi. Tuttavia si percepisce che qua è più importante l’afflato metaforico di un’eventuale veridicità, del resto i continui attacchi per mano di nemici ogni volta differenti (un antico romano, un arabo, un soldato francese) suggeriscono la dimensione sospesa del tutto, come se venissero concentrati secoli di storia su una collinetta brulla abitata da uomini della caverna. Ma Abreu cala il carico da undici soltanto alla fine quando asciuga il suo corto delle svirgolate weird in favore di un alone politico che fornisce un’ulteriore, se non l’unica chiave di lettura. È infatti pensabile che la voce over sia il vero estratto di un discorso proferito da qualche politico portoghese in seguito alla crisi economica, il nesso con la parte precedente è il fulcro di Barba, non è diretto (si vuole mica affermare che a prescindere dagli sforzi fatti una comunità di persone che vive in una democrazia è inevitabilmente soggetta alle imposizioni di chi comanda?), non è limpido, cercarlo, forse, è l’appagante compito che riguarda lo spettatore.
martedì 10 ottobre 2023
Barba
Paulo Abreu,
uno dei tanti esponenti della ricchissima scena portoghese,
allestisce un cortometraggio che per ambientazione e – si presume –
budget (molto risicato) ne ricorda un altro sempre battente bandiera
lusitana, mi riferisco a Sangue Frio (2009) dove guarda caso
Abreu ricopriva il ruolo di direttore della fotografia. Rispetto però
al titolo di Mendes che non pensava mai di abbandonare il mondo
astratto in cui navigava, Barba
(2011) ha, in un qualche modo che si cercherà di esplicitare sotto,
la voglia di farsi allegoria del contemporaneo. Prima va comunque
detto di cosa sto per scrivere: è un film che si occupa di tre
irsuti cavernicoli (anche se all’inizio sono quattro ma uno
sparisce) che vivono all’ombra di un vulcano, il taglio visivo
scelto da Abreu è inusuale e ciò fornisce una venatura comica, se
non surreale, che caratterizza il lavoro, in pratica il contenitore
adottato è da simil-cinema muto, e quindi bianco e nero più un
tappeto sonoro onnipresente, ma proprio sulla componente musicale c’è
da sottolineare quanto Abreu giochi con la musica attraverso
soluzioni sì e no carucce. Sul versante narrativo non possiamo
asserire che ci sia una storia canonica con premessa, svolgimento e
finale, l’atmosfera piuttosto bislacca mitiga l’ordinarietà di
una qualsivoglia struttura, non ci si guadagna niente in fatto di
chiarezza, piuttosto si registra un procedere stravagante che
potrebbe piacere come no, quindi, come si dice, uomo avvisato...
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