Vi dico subito che siamo dalle parti di Un’ora sola ti vorrei (2002), Lettre d’un cinéaste à sa fille (2002), Elena (2014), El silencio es un cuerpo que cae (2017) e chissà quanti altri esempi che si posano sul medesimo dispositivo filmico, ovvero quello di ripescare del materiale d’archivio girato direttamente da un proprio famigliare stretto e riproporlo nella contemporaneità del cinema con tutta una serie di possibili riflessioni attirate e/o irradiate dall’oggetto di studio. Nello specifico la mano dietro a Photo Jaunie (2016) è canadese e risponde al nome di Fanie Pelletier (regista che nel 2022 ha esordito nel lungo con Jouvencelles), una donna, una ragazza, ma soprattutto una figlia che per il suo cortometraggio ha deciso di assemblare i tipici filmini casalinghi tenuti in soffitta a prendere polvere con degli stralci diaristici letti da un narratore esterno appartenuti al padre Yvan morto di cancro nel 2000. L’operazione, al pari di tutte le altre che le assomigliano, è, e lo ricorderò fin che campo, markeriana fino al midollo, per cui ciò che ci troviamo davanti è un flusso audiovisivo che mescola la forza del passato, così “emersiva” quando viene adeguatamente trattata, e la residualità del presente, di chi rimane, di chi ricorda. Pelletier, nel costruire il suo lavoro breve, ha voluto far conoscere al mondo esterno un altro mondo, tutto interiore, che dimorava nell’animo del papà, i pensieri dell’uomo, a volte frustrati, altre volte pessimistici ma con schiarenti raggi di luce ad accarezzarli, si prendono la scena e in assoluta sincerità chi sono io per obiettare qualcosa al cospetto di siffatta cifra intima?
Meno di nessuno, però, se mi si permette il giochino comparativo, è vero che Faded photograph ha molto da condividere con i titoli citati all’inizio, impostazione e finalità generali sono praticamente sovrapponibili, tuttavia la cara Fanie non è arrivata in quelle zone ad alta intensità emotiva dove sono giunti i suoi colleghi. Il motivo è per me da rintracciare nella scelta, legittima, per carità, di non aver davvero rivoltato come calzini le immagini di ieri, di non aver creato un ponte multipercorribile con l’oggi. Non c’è una concreta indagine introspettiva su di sé e sul rapporto paterno, né un utilizzo del cinema come tavola ouija, si tratta essenzialmente di una biografia, tenera e accorata, ben realizzata e ricolma di amore, oltre non si va, ma forse, assistendo a quel finale in crescendo, può anche andare bene così.
Puntate i fari su La Distributrice de Films, una casa di distribuzione quebechiana che ha un catalogo molto, molto accattivante.
Nessun commento:
Posta un commento