giovedì 5 ottobre 2023

Hema Hema: Sing Me a Song While I Wait

Diciamo che il cinema buthanese non è proprio il mio forte, tuttavia mi spingo ad ipotizzare che Khyentse Norbu ne sia il maggior esponente, il suo curriculum parla addirittura di due suoi film che hanno trovato anche distribuzione in Italia, non so se è per via del fascino che aleggia sempre intorno a produzioni così esotiche o per reali meriti sul campo (non approfondirò oltre perché ho deciso che non vedrò altro del regista in questione), ma questo è. Hema Hema: Sing Me a Song While I Wait (2016) devo confessare che mi ha un po’ deluso, l’ho sentito come un’opera che si “vende” all’occidente mettendo in mostra quelle caratteristiche che uno spettatore (occidentale, appunto) si immaginerebbe di trovare in un film proveniente dal Bhutan. L’insistenza su una dimensione spirituale, seppur velata e mimetizzata in un contesto ambiguo, è la conferma di una facile predizione prima della proiezione, il che ci può stare perché siamo pieni di titoli asiatici con i medesimi attributi, il fattore discriminante è dato sempre dalle modalità di esposizione e non dagli argomenti maneggiati. Evito tutto il banale blabla relativamente all’autore che è sicuramente un ottimo professionista e via dicendo, a Hema Hema manca un taglio visivo che sappia davvero affettare la carne, la ciccia, quella a cui assistiamo è una rappresentazione di un mondo che, nonostante sia assurdo, onirico, antitetico al nostro, rimane tale: una rappresentazione, è più scenografia e coreografia che etnografia, è più sceneggiatura (sebbene i dialoghi siano pochissimi) che immersione nel reale, allora, qualcuno obietterà, cosa ti aspettavi? Un documentario? No, ritengo solo che si possa costruire un convincente racconto anche senza ricorrere a un’evidente impostazione finzionale.

Concordo sul fatto che le mie critiche tecniche possano apparire un pelo intransigenti, pardon, anni e anni di visioni hanno reso il mio sguardo estremamente selettivo, lasciatemi dunque parlare a chi, almeno, è curioso di sapere che cosa la pellicola affronta. Di certo si parte con un discreto deficit perché, escludendo gli esperti in materia, cosa sappiamo di buddismo? Ad esclusione delle generiche informazioni che chiunque ha recepito nella sua vita, credo non molto, o meglio non abbastanza per cogliere l’essenza del film, di contro Norbu è un lama tibetano sicché il divario si presenta da subito notevole. Nel mio piccolo ricolmo di ignoranza tutto l’allestimento cerimoniale mi è parso una grande allegoria di talune specifiche religiose, in particolare ho inteso il meeting mascherato una trasposizione del celeberrimo Bardo, un limbo dove non si è più chi si era e nemmeno chi si sarà, l’incertezza regna, del resto non viene mai apertamente chiarita la ragione per cui quelle persone si ritrovano ogni tot di tempo in mezzo alla foresta a volto coperto (l’anonimato è una forma di potere: riflessione interessante), ciò che ne risulta è un’atmosfera che si tuffa a piedi uniti nell’astrazione più spinta, e qui Norbu si gioca la carta della contrapposizione, non so se si possa ritenere un dardeggiamento al comportamento umano, però quanto vediamo è il contrario di un elevamento o un’ascesi, il sesso, l’alcool, la gelosia e la violenza primeggiano indefesse. La corrispondenza sullo schermo di un afflato licenzioso et bruto si risolve in uno snodo narrativo che vabbè, cioè, dài, è la quintessenza della scrittura applicata al cinema che, per leggi ineludibili, obbliga la storia a fluire in un alveo predeterminato indebolendosi al cospetto di obiezioni razionali (il protagonista, tra le tante ragazze presenti nel locale, come fa a capire che lei è... Lei?). Poi oh, una roba brutta brutta Hema Hema non lo è, suggerisco solo di non scambiarla per un prodotto innovativo.

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