venerdì 20 ottobre 2023

Que je tombe tout le temps?

Non è una passeggiata di salute esprimere le sensazioni scaturite da Que je tombe tout le temps? (2013), non lo è perché, appunto, parliamo di materia sentibile, sostanza che Eduardo Williams sa modellare sempre con invidiabile maestria. Il punto è che delle aspettative pre-visione molto si sgretola per lasciarci un pugno di qualcosa che è parecchio vicino a della fine sabbia, sembrerebbe che in questo squarcio lungo un quarto d’ora ci siano dei vuoti non riempibili dalle nostre interpretazioni, ad esempio: dove è ambientato il corto? Dalle pochissime informazioni rintracciabili in Rete si parla della Sierra Leone, eppure il protagonista parla francese e la sua abitazione che vediamo verso la fine potrebbe star bene nelle Fiandre, ma di sicuro non in Africa. E poi: cosa fa il ragazzo? Nel film, nella vita, per i pochi minuti con cui abbiamo a che farci? E ancora: quella grotta o passaggio sotterraneo è banalmente una caverna sotto al giardino o è una sorta di corridoio che mette in comunicazione realtà differenti? Ecco, ovviamente domande del genere non possono trovare risposte concrete, del resto il cinema dell’argentino è un continuo sondare zone misteriose e spesso inintelligibili, veri e propri buchi neri che la sua videocamera va a oltrepassare senza avere alcuna certezza di cosa troveremo dall’altra parte (e direi che la tendenza a immergersi dentro spazi oscuri è un po’ un marchio di fabbrica, penso al formicaio di The Human Surge [2016] o al tuffo in mare di Parsi [2019]).

Nella difficoltà di scovare una coesione, un raccoglimento semantico o simili (al sottoscritto è capitato in maniera equiparabile anche per El ruido de las estrellas me aturde, 2012), posso provare io stesso a esprimere ciò che Williams, forse, voleva dirci e che avrà compimento nel successivo El auge del humano. La forza nascosta dell’opera, non tellurica, non devastante, però percepibile, intuibile, in lontananza vibrante, riguarda un’idea di interconnessione globale, ovvero di come la settima arte sia in grado di declinare la contemporaneità che viviamo all’interno di una vicenda che nello spazio infinitesimale tra due frame pare cambiare location, così, dal nulla. Sicché il ragazzetto diventa una specie di pacchetto digitale (cit. Niccolò Contessa) che rimbalza da un mercato affollato dove cerca dei semini rossi e dove, dettaglio importante, parla spagnolo e quindi magari è ancora in un ulteriore luogo che non sappiamo, ad una giungla nella quale parla in inglese di frivolezze con dei coetanei di colore (perciò si suppone sia in terra africana), per ricomparire nell’aia domestica (con tanto di nonna o mamma o vicina che dice “da piccola ho scambiato la parola morire con dormire”, un’allusione all’astrazione?). In una tale mappatura geografica e telematica, l’antro ipogeo funge da router che indirizza i dati (= il giovane) nel Web (= nella cartina del mondo). Non ho riscontri effettivi sul fatto che Que je tombe tout le temps? sia l’Internet di Teddy, ipotizzarlo mi ha divertito e messo sotto una luce diversa l’incomprensibilità di superficie.

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