Nella difficoltà di scovare una coesione, un raccoglimento semantico o simili (al sottoscritto è capitato in maniera equiparabile anche per El ruido de las estrellas me aturde, 2012), posso provare io stesso a esprimere ciò che Williams, forse, voleva dirci e che avrà compimento nel successivo El auge del humano. La forza nascosta dell’opera, non tellurica, non devastante, però percepibile, intuibile, in lontananza vibrante, riguarda un’idea di interconnessione globale, ovvero di come la settima arte sia in grado di declinare la contemporaneità che viviamo all’interno di una vicenda che nello spazio infinitesimale tra due frame pare cambiare location, così, dal nulla. Sicché il ragazzetto diventa una specie di pacchetto digitale (cit. Niccolò Contessa) che rimbalza da un mercato affollato dove cerca dei semini rossi e dove, dettaglio importante, parla spagnolo e quindi magari è ancora in un ulteriore luogo che non sappiamo, ad una giungla nella quale parla in inglese di frivolezze con dei coetanei di colore (perciò si suppone sia in terra africana), per ricomparire nell’aia domestica (con tanto di nonna o mamma o vicina che dice “da piccola ho scambiato la parola morire con dormire”, un’allusione all’astrazione?). In una tale mappatura geografica e telematica, l’antro ipogeo funge da router che indirizza i dati (= il giovane) nel Web (= nella cartina del mondo). Non ho riscontri effettivi sul fatto che Que je tombe tout le temps? sia l’Internet di Teddy, ipotizzarlo mi ha divertito e messo sotto una luce diversa l’incomprensibilità di superficie.
Dias de pesca – Carlos Sorin
9 ore fa
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