sabato 30 settembre 2023

Juku

Ed ecco il predecessore di Viejo calavera (2016), anche Juku (2011), infatti, ha come set principale (e qui è pure l’unico visto che non ci sono riprese esterne) l’oscurità di una miniera che si trova a Huanuni, una città boliviana situata ad un’altitudine di circa quattromila metri sul livello del mare. Il titolo si riferisce ad una parola che nella lingua locale identifica i “mine thieves”, ovvero uomini che nottetempo entrano nella cava per rubare ciò che riescono, e il corto inizia proprio così: un pannello nero si squarcia e una luce avanza verso di noi rivelando le pareti rocciose del giacimento, è uno juku che in fretta e furia piccona delle pietre e se le infila nello zaino per poi sparire da dove è venuto, nelle tenebre. È un incipit di tutto rispetto che suggerisce la sfida raccolta da Kiro Russo, quella di fare cinema in un luogo a dir poco angusto senza illuminazioni artificiali, le uniche fonti luminose che permettono di vedere quanto accade nel film sono le pile poste sui caschi dei minatori. Se si vuole tirare in ballo l’atmosfera, questa entità non tangibile che tanto suggestiona, allora Juku ha le credenziali per poter sostenere di averla, sì, l’ambientazione fa molto (se non -issimo), ma comunque Russo è abile nel farci digerire la situazione senza particolari forzature aderendo il più possibile alla realtà circostante, solo la scelta di apporre una sorta di costante riverbero musicale sulle immagini potrebbe dare adito a piccoli dubbi, tuttavia nel complesso l’equilibrio raggiunto mi è parso piuttosto stabile e credibile.

Rispetto al lungometraggio d’esordio la vena narrativa, che già era piuttosto ridotta all’osso, viene pressoché eliminata, bene, è quello che sempre desidero da umile spettatore. Per fornire delle coordinate orientative il regista coglie un gruppetto di lavoratori che in un momento di pausa discorre sui pericoli (anche soprannaturali) che si annidano nella miniera, non ci sarebbe nulla di strano se non che le voci degli uomini paiono precedentemente registrate e solo in seguito inserite sopra il materiale girato, è un’inezia però è sufficiente a sortire un effetto, un mood, un’impressione dislocante. E la cosa prosegue anche durante la scena del soccorrimento fino a che le parole lasciano il posto ad una specie di distorsione elettrica che accompagna con solennità l’ipotetica uscita dai claustrofobici corridoi (che ad ogni modo non avverrà, i quattro più il moribondo spariscono nel chiarore abbacinante del giorno, noi ci fermeremo un bel po’ di metri prima), be’: niente male. Anche perché poi è servito il controfinale: a prescindere dal ladro e dall’incidente, il lavoro continua, tra trivelle idrauliche, pesanti carrelli da spingere e un frastuono infernale.

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