La base teorica di Also Known as Jihadi ci obbliga però a cucire tutte le varie porzioni contemplative con il dispositivo descrittivo adagiato sulla fredda burocrazia. Di nuovo con estrema semplicità vengono fatti scorrere in video i documenti processuali a carico di Abdel, si tratta proprio di scansioni degli incartamenti stilati dalla polizia e dagli altri organi coinvolti nel caso riguardanti perizie psichiatriche, verbali e trascrizioni di conversazioni telefoniche. Accostando e incastrando l’oggettività dei fascicoli investigativi con la realtà concreta dei luoghi immortalati, ne esce fuori un’ innovativa (e lo affermo senza conoscere Adachi) scrittura di un profilo umano appartenente alla finestra storica che stiamo vivendo, un dossier che trova equilibrio collocandosi a metà via tra un sistema televisivo ed uno artistico. Di righe o vistose ammaccature sulla carrozzeria di Baudelaire non ne ho ravvisate, ovvio che non si sta parlando di un lavoro in grado di scaldare gli animi dello spettatore, non può, a causa di una natura che si pone in maniera asciutta e scarna, e probabilmente non deve farlo, però va rimarcato, se mai ce ne fosse bisogno, l’eventualità che il cinema di Baudelaire assume, in particolare nell’esplorazione (/esplosione) del modello documentaristico, ormai divenuto un campo di ricerca che garantisce ampia libertà espositiva e creativa, è la scoperta dell’acqua calda visto che le avanguardie operano nel settore da decenni ma è sempre bene ricordarlo quando si parla di autorialità, altrimenti il finale significativo di Also Known as Jihadi che è realmente una possibile conclusione della vicenda rischierebbe di passare troppo in sordina.
domenica 17 settembre 2023
Also Known as Jihadi
Vedendo
Letters to Max (2014) mi ero
fatto l’idea che Éric Baudelaire fosse uno di quei
registi-etnografi che amano scovare ciò che c’è lontano da noi,
invece con The Ugly One (2013)
e soprattutto con Also Known as Jihadi (2017)
l’autore franco-americano dimostra, sempre seguendo i dettami del
suo maestro giapponese Masao Adachi, di essere interessato a cosa
succede in casa nostra, nel cuore di un’Europa che nel periodo in
cui il film è stato girato conviveva con la minacciosa ombra
dell’integralismo islamico. L’approccio del film in esame sfrutta
un impianto narrativo tanto basico quanto efficace: la storia è
quella di un ragazzo nato in Francia da una famiglia algerina che
dopo una vita come tante intraprende un percorso di radicalizzazione
religiosa viaggiando in Turchia e in Siria, l’aspetto curioso è
che noi, Abdel Aziz Mekki, questo è il suo nome, non lo vedremo mai
né sentiremo la sua voce. Eppure, al contempo, riceviamo una grande
quantità di informazioni sul suo conto poiché l’opera si avvale
di un doppio canale para-narrativo, due rivoli oltremodo antitetici
che si attraggono per la legge degli opposti. Baudelaire, videocamera
in mano, si mette fisicamente sulle tracce di Mekki, in un certo
senso compie una biografia visiva senza la benché minima
sottolineatura che parte dal suolo europeo per spostarsi in Medio
Oriente e ritorno, non vi sono commenti, indicazioni, indirizzamenti,
solo le immagini urbane, di un paese, di un albergo o di una strada
da percorrere. Se lo si nota la fonte delle riprese effettua dei
movimenti davvero simili agli spostamenti di quello che potrebbe
essere il collo di una persona, l’occhio digitale si parifica
all’occhio umano, è un’incarnazione nel corpo del jihadista, un
POV di situazioni e scorci totalmente inessenziali perché, lo
ribadisco, non accade niente di eclatante qua, è, in apparenza, un
collage paesaggistico che preso singolarmente avrebbe poco da dirci.
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