lunedì 25 settembre 2023

L’osservatorio nucleare del sig. Nanof

Se si riesce a digerire un aspetto un po’ vetusto, L’osservatorio nucleare del sig. Nanof (1985) ha dietro e dentro di sé una storia davvero affascinante, unica, una di quelle narrazioni sfuggenti che portano a immaginare le impossibilità che le caratterizzano, una vicenda, questa, che ha un unico e sconosciuto protagonista: Oreste Fernando Nannetti, un artista inconsapevole di esserlo, o forse ben più consapevole di altri sedicenti colleghi, che durante la sua permanenza nel manicomio di Volterra scolpì con le fibbie delle sue cinture due muri presenti nel cortile dell’Istituto dando vita ad un fittissimo intrico di quelli che potrebbero sembrare dei geroglifici, segni, lettere, parole che raccontano di un enigma impenetrabile disperso in dimensioni inaccessibili. Ad affrontare la misteriosa figura di Nannetti, a rielaborarla e filtrarla sullo schermo cinematografico, è il Paolo Rosa de Il mnemonista (2000), il fondatore dello Studio Azzurro ci restituisce la complessità di Nanof girando un’opera per nulla letterale e men che meno biografica. Seguendo un uomo (è una sorta di proiezione di NOF4?) e una donna (di mestiere fotografa), affiancando e mescolando piani temporali, giungono a noi stralci di un pensiero inafferrabile, elucubrazioni in bilico tra il nonsense e l’allitterazione, contorsioni celebrali, pseudo-fantascientifiche, filosofiche, mistiche, plausibili ricostruzioni (la scena nell’ufficio postale) e annesse decostruzioni (l’ultima carrellata sulle foto dei graffiti).

Ammantato da una nebbiolina metafisica che pare sfiatare via da una pellicola di Tarkovskij, L’osservatorio... ha questa qualità di smarcarsi dal banale ritrattismo per inquadrare la “cosa-Nannetti” da un’angolazione che a distanza di oltre tre decadi sa ancora essere efficace perché non si pone in una posizione interpretativa ma si appaia alla materia sotto esame, non ha la supponenza di voler e dover comprendere tutto ad ogni costo, preferisce galleggiare nel criptico limbo dal quale si abbevera, il risultato è un incrementarsi di interrogativi piuttosto che una ricezione di risposte, il che, ne converrete, è molto più stimolante. E poi Rosa, concedendogli delle sbavature ravvisate essenzialmente dal nostro essere spettatori moderni (ad esempio il doppiaggio è molto legnoso), dimostra un tatto autoriale da premiare grazie ad una miscela di registri che vanno dalla fiction al documentario con breccia su un filmato d’archivio che ipotizzo rarissimo. In generale, comunque, la sensazione è quella di scivolare in un dedalo audiovisivo che ben rappresenta la clandestinità di una mente ai margini di ciò che conosciamo. La vetta è una lunga sequenza ambientata nell’ospedale abbandonato dove un’eccellente progressione musicale sottolinea il rincorrersi di A e di B, di due fantasmi, di Nannetti e se stesso.

Qui uno splendido articolo sull’argomento.

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