Se si riesce
a digerire un aspetto un po’ vetusto, L’osservatorio nucleare
del sig. Nanof (1985) ha dietro
e dentro di sé una storia davvero affascinante, unica, una di quelle
narrazioni sfuggenti che portano a immaginare le impossibilità che
le caratterizzano, una vicenda, questa, che ha un unico e sconosciuto
protagonista: Oreste Fernando Nannetti, un artista inconsapevole di
esserlo, o forse ben più consapevole di altri sedicenti colleghi,
che durante la sua permanenza nel manicomio di Volterra scolpì con
le fibbie delle sue cinture due muri presenti nel cortile
dell’Istituto dando vita ad un fittissimo intrico di quelli che
potrebbero sembrare dei geroglifici, segni, lettere, parole che
raccontano di un enigma impenetrabile disperso in dimensioni
inaccessibili. Ad affrontare la misteriosa figura di Nannetti, a
rielaborarla e filtrarla sullo schermo cinematografico, è il Paolo
Rosa de Il mnemonista
(2000), il fondatore dello Studio Azzurro ci restituisce la
complessità di Nanof girando un’opera per nulla letterale e men
che meno biografica. Seguendo un uomo (è una sorta di proiezione di
NOF4?) e una donna (di mestiere fotografa), affiancando e mescolando
piani temporali, giungono a noi stralci di un pensiero inafferrabile,
elucubrazioni in bilico tra il nonsense e l’allitterazione,
contorsioni celebrali, pseudo-fantascientifiche, filosofiche,
mistiche, plausibili ricostruzioni (la scena nell’ufficio postale)
e annesse decostruzioni (l’ultima carrellata sulle foto dei
graffiti).
Ammantato
da una nebbiolina metafisica che pare sfiatare via da una pellicola
di Tarkovskij, L’osservatorio... ha
questa qualità di smarcarsi dal banale ritrattismo per inquadrare la
“cosa-Nannetti” da un’angolazione che a distanza di oltre tre
decadi sa ancora essere efficace perché non si pone in una posizione
interpretativa ma si appaia alla materia sotto esame, non ha la
supponenza di voler e dover comprendere tutto ad ogni costo,
preferisce galleggiare nel criptico limbo dal quale si abbevera, il
risultato è un incrementarsi di interrogativi piuttosto che una
ricezione di risposte, il che, ne converrete, è molto più
stimolante. E poi Rosa, concedendogli delle sbavature ravvisate
essenzialmente dal nostro essere spettatori moderni (ad esempio il
doppiaggio è molto legnoso), dimostra un tatto autoriale da premiare
grazie ad una miscela di registri che vanno dalla fiction al
documentario con breccia su un filmato d’archivio che ipotizzo
rarissimo. In generale, comunque, la sensazione è quella di
scivolare in un dedalo audiovisivo che ben rappresenta la
clandestinità di una mente ai margini di ciò che conosciamo. La
vetta è una lunga sequenza ambientata nell’ospedale abbandonato
dove un’eccellente progressione musicale sottolinea il rincorrersi
di A e di B, di due fantasmi, di Nannetti e se stesso.
Qui uno splendido articolo sull’argomento.
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