martedì 12 settembre 2023

The Hidden City

In apertura una scritta suggerisce di guardare La ciudad oculta (2018) al buio con delle cuffie o con un impianto audio adeguato. Da diligente spettatore ho seguito il consiglio del regista nato a Tenerife nel 1981 Víctor Moreno e per quanto la solita nonché solitaria visione casalinga sul proprio schermo del PC sia svilente per un esemplare con queste caratteristiche, non ho potuto fare a meno di ipnotizzarmi di fronte ad un allestimento di prima fascia che ha nel tappeto sonoro il suo fiore all’occhiello. È una specie di sondino gastrico il film di Moreno, una “cosa” che scende giù dall’esofago di un corpo che è la città (Madrid, per la cronaca) per aggirarsi nelle sue viscere, lì dove si intrecciano sistemi sanguigni e arteriosi, tunnel della metropolitana e tubi fognari, e dove alacri globuli rossi e bianchi antropomorfi, operai e tecnici, fanno sì che tutto continui a funzionare. Potenti i primi dieci minuti, un firmamento, il suolo lunare, le scintille sfiammanti, il prosieguo non è da meno e ci offre una panoramica senza commenti di ciò che accade nel sottosuolo, il tutto sempre accompagnato da uno score che violenta l’orecchio, infernale, cacofonico, metallico, riverberante, alieno, perfetta dotazione alle immagini oscure che l’opera contiene. La bellezza raggiunta dal risultato globale sta in un equilibrio che oscilla tra l’efferatezza dell’impasto audiovisivo (comunque c’è dello sporco, della fuliggine, della ruggine. Ci sono i ratti. Il fracasso dei convogli che sfrecciano, la melma dell’acqua stagnante) e la forza estatica che si propaga, tipo l’apparizione di un regale barbagianni, tipo i timidi raggi di luce che filtrano da una caditoia e vanno a posarsi sul volto di un uomo.

La concettualità che regola The Hidden City è, per fare due nomi di peso, la stessa che sta dietro a Leviathan (2012) o Dead Slow Ahead (2015). Il metodo di Moreno si costituisce nella registrazione di una realtà che, permettetemelo, è quella che è senza scappatoie, nello specifico è la rete sotterranea di una grande città europea, punto, non ci sono altre chiacchiere da fare. Poi sì, in post-produzione sono stati opportunamente miscelati taluni elementi per accentuare l’impatto su chi assiste, però la materia lavorata rimane altamente riconoscibile e concreta. Eppure chiunque si avvicinerà al film in esame non potrà mai affermare che esso si esaurisce nella sua componente illustrativa. L’oltre che si spalanca, ben più accattivante della catalogazione dei dati, ha a che fare con la percezione, quindi con l’invisibile. Perché qui, in un documentario, galleggiano, come quegli esseri diafani del brodo primordiale nei titoli di coda, suggestioni filmiche che esulano dall’etichetta di riferimento. La fantascienza (gli “astronauti” dell’incipit), l’horror (la sequenza da mockumentary nel condotto con gli scarafaggi) e altre categorie che orbitano nella galassia del perturbante bussano alle porte del nostro sentire. Probabilmente ad un tale gioco di riflessi nessuno dà particolare importanza, ciononostante un’enorme potenzialità del cinema si rintraccia esattamente nella capacità di trasmettere sensazioni, impressioni, mondi, senza ricorrere ai consueti algoritmi produttivi. È una roba meravigliosa che ci fa capire di come già nel reale sia contenuta ogni possibile narrazione, tolto il superfluo si resta abbagliati dalla prismaticità di una pietra solo apparentemente semplice.

¡Muchas gracias Dries!

Nessun commento:

Posta un commento