La concettualità che regola The Hidden City è, per fare due nomi di peso, la stessa che sta dietro a Leviathan (2012) o Dead Slow Ahead (2015). Il metodo di Moreno si costituisce nella registrazione di una realtà che, permettetemelo, è quella che è senza scappatoie, nello specifico è la rete sotterranea di una grande città europea, punto, non ci sono altre chiacchiere da fare. Poi sì, in post-produzione sono stati opportunamente miscelati taluni elementi per accentuare l’impatto su chi assiste, però la materia lavorata rimane altamente riconoscibile e concreta. Eppure chiunque si avvicinerà al film in esame non potrà mai affermare che esso si esaurisce nella sua componente illustrativa. L’oltre che si spalanca, ben più accattivante della catalogazione dei dati, ha a che fare con la percezione, quindi con l’invisibile. Perché qui, in un documentario, galleggiano, come quegli esseri diafani del brodo primordiale nei titoli di coda, suggestioni filmiche che esulano dall’etichetta di riferimento. La fantascienza (gli “astronauti” dell’incipit), l’horror (la sequenza da mockumentary nel condotto con gli scarafaggi) e altre categorie che orbitano nella galassia del perturbante bussano alle porte del nostro sentire. Probabilmente ad un tale gioco di riflessi nessuno dà particolare importanza, ciononostante un’enorme potenzialità del cinema si rintraccia esattamente nella capacità di trasmettere sensazioni, impressioni, mondi, senza ricorrere ai consueti algoritmi produttivi. È una roba meravigliosa che ci fa capire di come già nel reale sia contenuta ogni possibile narrazione, tolto il superfluo si resta abbagliati dalla prismaticità di una pietra solo apparentemente semplice.
¡Muchas gracias Dries!
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