Ho citato la sorella di Nina, Tinka, la quale oltre ad essere una degli ufficiali in postazione di controllo nonché protagonista di un breve brandello casalingo con il proprio compagno, è anche soggetto completamente estraneo al girato vestendo panni di difficile interpretazione: la vediamo come una sorta di ninfa nuda nel mezzo del bosco che si tagliuzza il braccio oppure con un trucco pesante insieme ad un ragazzino di colore, mentre fuori campo si accavallano delle voci infantili al limite del comprensibile. Sconquassati e provati realizziamo che il lavoro compiuto in fase di montaggio è fondamentale nel dare una significazione al film, e trattandosi di una messa in serie oltremodo scombinante succede che non si può ricorrere ad una chiave razionale che faccia da collante, c’è necessità di valicare il confine della concretezza per allinearsi alle frequenze invisibili emanate dalla strega-Menkes. Un aspetto risaltato dai commenti in Rete riguarda la bravura della regista nell’aver affrontato il tema della violenza (nell’ambito delle forze armate, il che spalanca ulteriori scenari) con un approccio a dir poco singolare, ciò è vero al pari del fatto che questa è comunque soltanto la superficie, The Bloody Child è un catino in ebollizione infiammato da frustate che fanno il loro (adesso ho capito da dove veniva quel cavallo in Dissolution, 2010), ostinato nel demandare il senso in un altrove (ad ogni modo, alla fine, i fatti sono all’incirca ricostruibili), meriterebbe un restauro estetico perché anche visivamente dice la sua (vedi il prologo e l’epilogo desertici e crepuscolari). Gran temperamento artistico questa Menkes, un recupero da chi ne sa in materia sarebbe doveroso.
domenica 10 settembre 2023
The Bloody Child
Ancora un
oggetto alieno all’interno di una filmografia altrettanto aliena,
The Bloody Child (1996) è un concentrato di suggestioni
menkesiane dove con piacere si rintracciano segnali distintivi
riconducibili alla regista americana. Lo spunto del film pare
ricalchi un caso di cronaca nera che vide un marine impegnato nella
guerra del Golfo uccidere la moglie una volta tornato a casa, e in
effetti l’uccisione di una ragazza, un po’ come era già accaduto
per Magdalena Viraga (1986),
è la benzina della vicenda, solo che mai come per il film sotto
esame non vi è alcuna evidenza crime, nessun apparato thriller. Per
cominciare bisogna riconoscere la natura strutturale dell’opera che
più che ripetitiva diventa praticamente ossessiva, è una roba non
così comune nel cinema e per certi versi la Menkes ci aveva fornito
un piccolo assaggio con la scena del casinò in Queen of Diamonds (1991), ma qui la
sintassi ricorsiva è nettamente più organica e quindi più
complessa. Il centro gravitazionale è un checkpoint militare dove
l’assassino è stato beccato mentre forse tentava di occultare il
cadavere, a noi, però, qualunque visione esplicativa ci è
sottratta, nei numerosi segmenti con gli uomini dell’esercito non
accade nulla se non la riproposta e potente (proprio perché
brutalmente reiterata) immagine di un soldato che schiaccia la testa
del killer contro il corpo insanguinato della donna. Prima, dopo e
tutt’intorno, la pellicola subisce degli attacchi dinamitardi, la
narrazione si scompone in una sequela di possibilità. È possibile,
ad esempio, che nei primi venti minuti alla succitata situazione del
posto di blocco vengano alternati stralci del tempo libero di alcuni
militari all’estero. Perché tra l’altro anche geograficamente
avviene uno sbalestramento, data la presenza di Tinka Menkes sembra
di trovarci nuovamente dalle parti di The Great Sadness of Zohara (1983), un Medio Oriente,
una zona, magari, del nordafrica che ritorna proteiforme
nell’amalgama filmica.
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