Cinema-sortilegio,
cinema-mefistofelico, transitare nella cultura popolare germanica per
raccogliere gli echi del Dottor Faust e riversarli sul litorale
messicano, fare sì che il carico esoterico si espanda nel
territorio, nella natura, nelle persone che lo popolano, e quindi
ascoltarle queste persone, ricevere in dono una matassa di storie
oscure piene di spiriti, tenebre, luci, animali telepatici, tombe
duplicate e uomini senza un braccio, assemblare questa corrente
narrativa ricolma di folklore e leggenda per cucirla addosso alle
parole di un narratore esterno, una voce che fluttua sulle immagini,
che ne doppia il labiale, che divaga (la vista dei cavalli), che
avrebbe il compito di farsi esplicativa ma che in realtà salpa per
altri lidi, e quindi soffermarsi su quattro ragazzi che gestiscono un
locale sulla spiaggia, ulteriori fonti di un racconto che si incrocia
col mistero circostante, conglobare la moltitudine di sfuggenti input
in un film che intesse delle relazioni estremamente pericolose con il
diavolo o qualcosa che gli si avvicina. Fausto (2018) suona
così, discordante (ingressi di synthop per nulla allineati) e
puzzolente, di zolfo, ovvio, pieno di gente strana in cerca di ombre
scappate via, di baratti esistenziali con soggetti, a quanto si dice,
poco raccomandabili, di favole nere che germogliano di bocca in
bocca. Stelle e aloni lunari sfarfallanti, tartarughe, atomi,
tassidermia, schiuma, lampi. Il vocabolario da sfogliare, la nostra
tavola alchemica.
E inoltre: trasferire il
materiale girato in digitale su pellicola da 16 mm non è un
dettaglio, è una componente che aggiunge magnetismo, la resa video
sembra invecchiata, leggermente pallida, Andrea Bussmann, canadese
classe 1980, moglie del collega Nicolás Pereda con il quale si è
recata per un periodo di vacanza a Oaxaca dove ha potuto
concretizzare certe idee che le frullavano in testa, ha ben chiara la
direzione che alcuni autori stanno dando alla settima arte oggidì,
la pietra da sgrezzare è il documentario che ormai è un genere
letteralmente esploso in sottocategorie inclusive, veri e propri
spazi che accolgono filoni finzionali, luoghi di coesistenza tra
ritratto etnografico e iniezione artificiale; soprattutto: darci
dentro sul versante fittizio, imbandire la scarna superficie del
reale con vettovaglie non necessariamente coordinate, il tutto senza
forzare la mano in modo da raggiungere un equilibrio suggestionante.
E la Bussmann che dice? Che fa? Che combina? Nell’incantesimo
luciferino, nella fattura che ci viene recapitata, appare evidente
(no, di evidente non vi è giustamente nulla) che lei stessa sia la
Signora del Male apparsa nelle vesti di chierico vagante di
gucciniana memoria davanti a noi, e sapete che c’è? Sono stato ben
felice di venderle la mia anima in cambio di un’ora e dieci minuti
di proiezione.
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