venerdì 28 luglio 2023

Inori

Dalle acque cristalline di Alamar (2009) all’entroterra giapponese di Inori (2012), il movimento del regista belga-messicano Pedro González-Rubio è transcontinentale ma alla fine, stringi stringi, sempre di storie piccolissime finisce per occuparsi. Il raggio di azione è limitato ad un paese situato nella prefettura di Nara dove il tempo, come credo per tutti i paesi rurali del mondo, sembra fluire più lentamente, non a caso una delle prime immagini è il dettaglio di una capra agonizzante mentre una delle ultime riguarda nuovamente la medesima capra, però morta, come se il film vivesse nella dilatazione di quell’agonia animale, e in effetti un certo riflesso funebre aleggia tra gli sparuti abitanti del villaggio, la morte è un argomento che va per la maggiore e González-Rubio registra direttamente dai suoi interlocutori le opinioni in merito che poi rincolla sullo scorrere delle istantanee. Del resto parrebbe che la traduzione di “inori” sia “preghiera”, e una tendenza alla spiritualità, piuttosto pronosticabile in un luogo del genere, è ciò che traspare dall’umanità sullo schermo. Nella sua brevità il documentario ci consegna almeno un piacevole ritratto, quello dell’arzilla vecchietta che schizza da un posto all’altro per sbrigare le varie faccende quotidiane, la restante componente antropologica, ad essere onesti, non mi ha granché impressionato, PGR non ha scovato una storia bella & potente da raccontarci, né, credo, sia riuscito a rendere potenti & belle le narrazioni ordinarie che si affastellano nella realtà, e qui arriviamo all’aspetto che meno ho digerito dell’opera.

Non ho incredibili verità da svelarvi, semplicemente ho visto Inori come una pellicola livellata nella medietà, scorretto, magari, definirla brutta, impossibile, comunque, tesserne apertamente le lodi. La tara che si porta appresso fin dal leggere della trama è che girare un film nella campagna nipponica significa considerare una serie di elementi autoctoni che per noi occidentali identificano la nazionalità d’appartenenza, e i suddetti elementi ci sono tutti (la flora verdeggiante, la pace, gli alberi in fiore, ecc.), il problema è che c’erano e ci saranno anche in innumerevoli altre produzioni che trattano la stessa tematica, e non solo in Giappone, pur cambiando la località bucolica il discorso, nella sua essenza, non cambia (pensiamo alla riflessione dei giovani che hanno abbandonato il paesello in favore della città se non è un concetto universalmente traslabile ovunque). Quindi ciò che imputo al filmmaker e che bene o male addito ogni qual volta subisco quella fastidiosa sensazione di-già-visto, è il non aver tentato di apportare neanche un briciolo di ricerca strutturale al proprio lavoro che seppur dotato di naturalistiche sequenze contemplative e di uno strato d’osservazione etnografico, è pressoché identico a centinaia di altri esemplari cinematografici ad esso accostabili. Con Pedro González-Rubio avevamo perso i contatti, la visione di Inori non mi invoglia troppo a ripercorrerne il passato intercorso.

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