Primo lungometraggio per
Gianfranco Rosi girato all’età di quarantaquattro anni,
Below Sea Level (2008) è il risultato di un’idea di
cinema che il regista nato in Eritrea aveva già sperimentato
molto tempo prima con Boatman (1993), qui il padre de El Sicario, Room 164 (2010), personaggio particolare che dato il
palmares è ormai da considerare come uno degli autori nostrani
di maggior rilievo in campo internazionale, decide di lavorare in
modo certosino il proprio soggetto filmico, visto che, come sembra
evidente, l’attenzione in ogni film si è sempre riposta
nell’Umano, l’avvicinamento alla materia prima, e quindi agli
uomini che ne popolano i lavori, non poteva che essere
confidenziale e lontano da un “mordi e fuggi”, prima presentarsi
come Gianfranco e poi come Regista. E da tali premesse si comprende
più agevolmente il substrato di Below Sea Level nella
misura per cui un documentario del genere poteva essere soltanto
così: una mimesi di Rosi nella quotidianità di Slab
City, ne risulta perciò un atto registico ammirabile: la
fusione intima con annessa fiducia e intesa da parte dei vari
personaggi verso Rosi prima ancora del film in sé e del
cinema, tutto ciò è una cosa che definirei “bella”
e che fa onore all’autore il quale si prende un tempo che il cinema
commerciale altrimenti non permetterebbe (si parla di mesi e mesi di
reciproca conoscenza).
La forma di Below Sea
Level assomiglia a quello che sarà Sacro GRA
(2013), ossia un collage fotografico di persone al limite e anche
oltre, ma se la pellicola che vincerà a sorpresa nonché
immeritatamente il Leone d’Oro a Venezia ’13 si macchia a mio
avviso di un autorialismo ingiustificato (oltre che di un’aria
derivativa: Seidl faceva film così già vent’anni
prima), il documentario girato in California mantiene inalterata una
certa “verità”, quell’aderenza al reale che allieta la
visione: meno fiction c’è e più il nostro sguardo si
purifica, se poi la decontaminazione avviene attraverso un apparato
di storie che ci parlano di polvere e macerie tanto meglio: sì,
al di là degli aspetti di superficie più pronosticabili
(appunto: l’isolamento di tanti gesù cristi nel nulla
desertico; la vena di follia che scheggia talune orbite; il degrado
generale che possiamo constatare), Below Sea Level non è
un film che mette in risalto la Povertà Assoluta, la
Disperazione o altre istanze che dovrebbero definire l’esistenza
dei senzatetto, nel senso, se rispolveriamo un’opera come Dark Days (2001), senza scomodare l’oltre: L’ultimo posto sulla terra (2001), nel film di Rosi non vi è un sentimento così
sconfortante, anzi nel quadro che sarà anche di innegabile
miseria brillano degli esseri umani comunque vivissimi, spiantati ma
con uno spessore intellettuale (il tizio che elenca le qualità
delle mosche) e sentimentale (l’ammissione della donna che nel
dialogo più drammatico del film prende coscienza della propria
condizione) da far invidia ai propri civilizzati simili. La ballata
di questa moderna comune si fa scrigno, proprio dove è
difficile immaginare un domani ecco quel prezioso antidoto che ha tale nome: umanità.
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