lunedì 30 gennaio 2017

Boatman

Girato a ventinove anni in completa indipendenza, Boatman (1993) di Gianfranco Rosi è un esempio di discreto cinema etnografico, più che altro ciò che suscita ammirazione è lo spirito avventuriero che lo principia, la curiosità di un italiano benestante che arrivò a Benares quasi per caso e dove vi ritornò più volte intessendo legami tramutati in storie da raccontare, come quella del barcaiolo Gopal o dei due italiani, un romano e un genovese, delle cui vite, soprattutto quelle future, sarebbe interessante venire a conoscenza. Ma Boatman non ha tempo per l’approfondimento umanistico, adagiato sul tempo di un’escursione in canoa sul Gange, e quindi aderente ad una sorta di realismo sebbene rimanga evidente il fatto che le riprese si siano svolte in più giorni, il lavoro d’esordio del regista nato in Eritrea si fa POV, testimonianza oculare a cui i vari personaggi si rivolgono annullando il filtro della macchina da presa. C’è Rosi su quel guscio di noce che scivola sulle acque del Fiume Sacro sfiorando carcasse galleggianti dalle ossa ormai porose e crisalidi con resti incancreniti di quella che un tempo era una persona, e l’esserci di Rosi diventa parallelamente il nostro esserci, ergo: abbiamo una piccola immersione, un’apnea in un mondo che, implementato dal bianco e nero granuloso, appare lontano e magnetico al contempo, in un tilt di fascino e repulsione che non lascia impassibili.

Per provare a comprendere il tasso di “immaturità” che caratterizza Boatman basta scorrere il curriculum di Rosi per accorgersi che il film successivo verrà girato più di un decennio dopo dall’altra parte del globo terracqueo (Below Sea Level, 2008), eppure nonostante le evidenti imperfezioni ed improvvisazioni accetto molto più di buon grado un cinema come questo che l’autorialismo sterile di Sacro GRA (2013). Boatman, pur non raggiungendo nemmeno i sessanta minuti di lunghezza, con il suo essere spugna sa assorbire ciò che lo circonda senza estetismi né elucubrazioni di sorta, è una visione del genere che nella semplicità di uno sguardo sulla vita e sulla morte può riconciliare l’esperienza spettatoriale con la dimensione dell’originalità e della purezza, è sufficiente una mandria di bambini nudi che gioca nel bel mezzo del Gange a divorarsi tutta la finzione che ammanta la settima arte.

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