lunedì 16 gennaio 2017

Thy Womb

Captive (2012) era in tutto e per tutto un film di Mendoza nei tratti estetici, in aggiunta il regista filippino aveva tentato una sorta di operazione storicizzante con riferimenti a fatti realmente accaduti, il risultato non era stato granché esaltante poiché la sua caratteristica principe, ovvero quel catturare la realtà, veniva un po’ depotenziato da uno scheletro finzionale che si accartocciava su una narrazione sottotono, praticamente un susseguirsi di situazioni troppo simili le une alle altre. Nello stesso anno però il Signor Brillante si presentava in Laguna con un lavoro a lui più consono, Thy Womb (2012) è infatti un ritorno nella miseria filippina, un luogo estremamente concreto, vivo, l’habitat naturale del cinema mendoziano. Precisando subito che Thy Womb non è quel tipo di film che incendia l’animo dei cinefili doc, il che, ragionando su Mendoza alla luce della sua produzione recente e non, mi fa pensare che qui si parla di una filmografia prescindibile, ad esclusione di Kinatay (2009) non c’è ancora un titolo degno di essere ricordato, dicevo: sottolineando i limiti dell’opera sotto esame, c’è da rimarcare una solidità maggiore del coetaneo Captive e il motivo lo si può trovare nell’equilibrio che si viene a creare tra dramma sociale e dramma personale.

Questi punti sono i cardini che permettono a Thy Womb di muoversi disegnando un raggio che sa attirare l’attenzione della nostra etica occidentale. Mendoza bazzica i territori che furono di Foster Child (2007) realizzando un ipotetico prequel, adesso è il bisogno di una genitorialità a mettere in moto meccanismi umani e contestualmente collettivi. Perché è in questo che Mendoza può essere definito “bravo”, se si fosse concentrato solo sulle faccende marito/moglie il film si sarebbe autodistrutto poiché il regista non avrebbe potuto reggere un cinema prettamente narrativo, per sua fortuna la storia si fa invadere senza stonature da risvolti etnografici anche non direttamente collegati alla traccia principale (la lunga scena del matrimonio), il risultato è una stabilità dalla quale è possibile desumere informazioni circa la realtà culturale di quella zona delle filippine, e c’è un minimo di cui interessarsi perché abbiamo la possibilità di confrontarci con pratiche religiose e culturali lontane dalle nostre e che Mendoza, fedele alla propria visione di Verità, non stigmatizza né condanna. Si assiste piuttosto increduli alla compravendita di donne le cui uniche funzioni saranno quelle gestative, al pari delle cerimonie arcaiche che sanciscono i matrimoni o delle trattative precedenti ad essi. In parallelo si sviluppa il mondo interiore della moglie (il paradosso è che una specie di ostetrica non può avere figli) che Mendoza raccoglie e ritrasmette con grande dignità femminea, e perfino durante il finale!, dove dentro a quello strano quartetto famigliare è l’unica che abbozza un sorriso.

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