Pianosequenza di
venticinque minuti dallo sguardo etologico, l’animale in via di
estinzione è l’Uomo e Hirabayashi lo suggerisce con la
finezza del dettaglio facendoci capire che ci siamo proprio noi, Io e
Te, in quell’umida foresta impegnati in gesti all’apparenza
incomprensibili. D’altronde in un quadro così basico alcuni
elementi non possono essere casuali, e attraverso il mantra less
is more che non dà coordinate specifiche e che quindi
arriva ad irradiare tutta l’indeterminatezza dell’universalità,
spiccano delle rifiniture altresì fondamentali perché
l’uomo pronto a commettere l’atto più estremo è un
fantoccio mondo globalizzato, è l’ovest del pianeta (un
ovest che sta anche ad est, anche in Giappone) che ha brandizzato le
persone, ha logoizzato i corpi: il protagonista indossa una felpa
arancione dell’Olanda, sotto di essa ha un’altra felpa – forse
– del Brasile, e ancora sotto una maglietta con sopra degli alieni
stilizzati, infine porta delle scarpe colorate dell’Adidas. Questo
è un melting pot disidentificante, l’armatura dell’essere
vivente civilizzato è esattamente così, una divisa che
mettiamo su per la battaglia della vita, ed è proprio a causa
di ciò che lì dentro ci siamo Noi. Non Vi convince
nemmeno il selfie che il tizio si fa poco prima di… ?
Con uno spessore
concettuale di molto superiore a Soliton (2014) che si
presentava più come un esercizio tecnico senza particolare
profondità, Aramaki (2010) centra chirurgicamente
l’illustrazione laterale di una fine laddove lo svestimento degli
abiti diventa acquiescenza con la morte e, soprattutto, regressione
totale dal mondo così come lo conosciamo. L’animalizzazione
è pronta e servita: in uno scenario lustrale dove non basta
uccidersi ma c’è anche bisogno di essere martoriati dai
lupi, il passaggio tramite il mezzo-cinema da uno stato biologico
all’altro è una trasformazione che ho trovato realmente
investente e pregna di possibili significati, la voce di Hirabayashi,
che gioca con lo spettatore mimetizzando un cappio penzolante
nell’ambiente boschivo, è un de profundis atavico, un
teatro dell’espiazione ancestrale dove le colpe da pagare sono però
rintracciabili nel falso mito del benessere occidentale. E quando
stiamo per alzarci dalla poltrona i titoli di coda, altra prova
d’eclettismo del regista che lavora spesso nel campo animato (anche
per bambini), ci rinchiodano sul posto. E il 2D spalanca l’abisso.
Presentato a Berlino 2010.
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