Il film che chiude
l’ufficiosa trilogia amorosa di Park Chan-wook si attesta su
livelli accettabili perché se pensiamo a Thirst (2009), e
pensiamo occhei dài, e a Stoker (2013), qui forse un
po’ meno bene, il ricordo che ci portiamo dentro è di
benevolenza verso il regista sudcoreano (ma saranno ancora le scorie
esaltanti della visione post-adolescenziale di Oldboy [2003]?)
il quale continua ad affermare la sua idea di un cinema che si
configura nel mainstream ma sempre in una posizione abbastanza
liminare, perché Park pur essendo completamente dentro gli
ingranaggi tecnici e strutturali che sottendono la produzione di
un’opera da multiplex, ne esce fuori ogni volta con un decoro che
lo distingue dalla massificazione, e il merito principale lo si
rintraccia in un’estetica d’altissima fattura, patinata,
plastificata, iper-artefatta, comunque “fatta bene” per noi
ignari delle questioni legate alle maestranze specifiche, e il
risultato formale di Ah-ga-ssi (2016) più che sotto, è
negli occhi di tutti, almeno di chi l’ha visto, e di certo ci sono
vari meriti da spartire, in primis a Chan-wook che ha raggiunto
un’elevata qualità visiva unendo al digitale un accessorio
tradizionale come riportato qui: I still feel that film is superior
to digital, and if I could have my choice, I’d prefer to shoot on
film. But one of the things we could do while
shooting on digital was to afford the use of an anamorphic lens. I
have a special affection for films shot with old anamorphic lenses,
plus my cinematographer had an interest in combining an old-style
lens with a new digital camera. The look that it creates is
quite unique, and it seemed appropriate to the period setting of the
film, e, ovviamente, complimenti al sempre fedele Chung
Chung-hoon che accompagna Park come direttore della fotografia da
quasi quindici anni, ulteriore menzione speciale all’art design ed alla
predisposizione degli interni della villa, così come ai
costumisti e a tutto il resto dello staff, insomma la grossa macchina
fruttifera parkiana produce ciò che il suo boss vuole:
commerciabilità con striature autoriali.
Cotanta beltà
medica una scrittura che non tiene il passo al proprio contenitore?
Mah... non è da escludere, essendo la base di partenza un
romanzetto da bancarella (lo dico senza averlo letto ma non credo che
Sarah Waters si possa arrabbiare viste le inaspettate royalities in
won sudcoreani), l’adattamento cinematografico pur stravolgendo
la location e cambiando alcuni passaggi narrativi è sempre
orientato ad affrescare una liaison saffica in odore di turpitudine.
Da tale angolazione il film è davvero semplice – anche
eccessivamente – e cerca sussulti in alcuni twist e anti-twist che
se non fossero sorretti dalla summenzionata tecnica richiamerebbero a
sé echi soapoperistici, la pretta sinossi ci dice questo in
modo chiaro e ben poco stimolante, poi noi che siamo bravi ci vediamo
anche altre cose come l’amore del regista per Hitchcock
(è risaputa la sua ammirazione per La donna che visse due volte, 1958 [1]) che si traduce in una costante duplicità:
le prime due porzioni del film sono l’una il controcampo dell’altra
(inoltre le due donne, come sancisce il simmetrico e andersoniano
finale, sono due facce della stessa moneta), e vediamo anche svariati
elementi che ravvivano e decentrano la traccia sentimentale, su tutti
l’erotismo screziato da una latente perversione che non riguarda
tanto i contenuti sessuali semi-espliciti quanto le rivelazioni sui
singoli personaggi nel dispiegarsi tramico (il reading osé
a firma dello zio maniaco è una bella trovata), esagerando
potrebbe esserci spazio anche per una veduta storico-culturale (nella
diatriba Corea vs. Giappone ho avvertito qualche rimando
all’attualità) oltre che delle considerazioni sullo status
del “maschio” che non ne esce a testa alta,
tuttavia è meglio non allargare troppo l’orizzonte
interpretativo visto che quanto c’è da capire risiede
nell’aspetto visivo ed ogni correlato accessorio (dimenticavo:
ironia aggraziata e accenti weird: la piovra!) rende Ah-ga-ssi
niente più che un oggetto di raffinata evasione.
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[1] In Mademoiselle
è presente la rapida ripresa frontale di un hotel con
all’interno Lady Hideko ed il Conte che ricorda molto l’albergo
in cui si ritrovano James Stewart e Kim Novak in Vertigo.
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