venerdì 20 gennaio 2017

Mademoiselle

Il film che chiude l’ufficiosa trilogia amorosa di Park Chan-wook si attesta su livelli accettabili perché se pensiamo a Thirst (2009), e pensiamo occhei dài, e a Stoker (2013), qui forse un po’ meno bene, il ricordo che ci portiamo dentro è di benevolenza verso il regista sudcoreano (ma saranno ancora le scorie esaltanti della visione post-adolescenziale di Oldboy [2003]?) il quale continua ad affermare la sua idea di un cinema che si configura nel mainstream ma sempre in una posizione abbastanza liminare, perché Park pur essendo completamente dentro gli ingranaggi tecnici e strutturali che sottendono la produzione di un’opera da multiplex, ne esce fuori ogni volta con un decoro che lo distingue dalla massificazione, e il merito principale lo si rintraccia in un’estetica d’altissima fattura, patinata, plastificata, iper-artefatta, comunque “fatta bene” per noi ignari delle questioni legate alle maestranze specifiche, e il risultato formale di Ah-ga-ssi (2016) più che sotto, è negli occhi di tutti, almeno di chi l’ha visto, e di certo ci sono vari meriti da spartire, in primis a Chan-wook che ha raggiunto un’elevata qualità visiva unendo al digitale un accessorio tradizionale come riportato qui: I still feel that film is superior to digital, and if I could have my choice, I’d prefer to shoot on film. But one of the things we could do while shooting on digital was to afford the use of an anamorphic lens. I have a special affection for films shot with old anamorphic lenses, plus my cinematographer had an interest in combining an old-style lens with a new digital camera. The look that it creates is quite unique, and it seemed appropriate to the period setting of the film, e, ovviamente, complimenti al sempre fedele Chung Chung-hoon che accompagna Park come direttore della fotografia da quasi quindici anni, ulteriore menzione speciale all’art design ed alla predisposizione degli interni della villa, così come ai costumisti e a tutto il resto dello staff, insomma la grossa macchina fruttifera parkiana produce ciò che il suo boss vuole: commerciabilità con striature autoriali.

Cotanta beltà medica una scrittura che non tiene il passo al proprio contenitore? Mah... non è da escludere, essendo la base di partenza un romanzetto da bancarella (lo dico senza averlo letto ma non credo che Sarah Waters si possa arrabbiare viste le inaspettate royalities in won sudcoreani), l’adattamento cinematografico pur stravolgendo la location e cambiando alcuni passaggi narrativi è sempre orientato ad affrescare una liaison saffica in odore di turpitudine. Da tale angolazione il film è davvero semplice – anche eccessivamente – e cerca sussulti in alcuni twist e anti-twist che se non fossero sorretti dalla summenzionata tecnica richiamerebbero a sé echi soapoperistici, la pretta sinossi ci dice questo in modo chiaro e ben poco stimolante, poi noi che siamo bravi ci vediamo anche altre cose come l’amore del regista per Hitchcock (è risaputa la sua ammirazione per La donna che visse due volte, 1958 [1]) che si traduce in una costante duplicità: le prime due porzioni del film sono l’una il controcampo dell’altra (inoltre le due donne, come sancisce il simmetrico e andersoniano finale, sono due facce della stessa moneta), e vediamo anche svariati elementi che ravvivano e decentrano la traccia sentimentale, su tutti l’erotismo screziato da una latente perversione che non riguarda tanto i contenuti sessuali semi-espliciti quanto le rivelazioni sui singoli personaggi nel dispiegarsi tramico (il reading osé a firma dello zio maniaco è una bella trovata), esagerando potrebbe esserci spazio anche per una veduta storico-culturale (nella diatriba Corea vs. Giappone ho avvertito qualche rimando all’attualità) oltre che delle considerazioni sullo status del “maschio” che non ne esce a testa alta, tuttavia è meglio non allargare troppo l’orizzonte interpretativo visto che quanto c’è da capire risiede nell’aspetto visivo ed ogni correlato accessorio (dimenticavo: ironia aggraziata e accenti weird: la piovra!) rende Ah-ga-ssi niente più che un oggetto di raffinata evasione.
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[1] In Mademoiselle è presente la rapida ripresa frontale di un hotel con all’interno Lady Hideko ed il Conte che ricorda molto l’albergo in cui si ritrovano James Stewart e Kim Novak in Vertigo.

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