Per Isamu Hirabayashi,
sperimentatore e animatore giapponese da approfondire, la prospettiva
ed il film sono la stessa cosa. Questa importante sovrapposizione si
tinge di originalità nel proporci quello che, almeno in
apparenza, si vive come un lacerto bellico: il point of view inusuale
è di una testa abbassata, il capo chino (probabile postura
metaforizzata) diventa il nostro capo chino, sicché la
pulsione scrutativa è intrappolata nei piedi di un militare
che cammina su un territorio scosceso mentre rumori sinistri e
radioline gracidanti riversano nell’al di qua un clima,
appunto, armato. In Soliton (2014), per quanto riguarda la
componente visiva non c’è altro, Hirabayashi si attiene a
questo precetto stilistico con una sola parentesi che per un istante
trascende nel videoludico, il più classico degli upgrade da un
livello all’altro. In realtà la soluzione che spartisce il
corto non ha niente da condividere con i videogiochi, soliton, al
contrario, è un concetto molto più concreto perché
è per la fisica un’onda che si propaga ad una velocità
costante mantenendo sempre la stessa forma. Hirabayashi suggerisce il
carico semantico del titolo facendo passare sullo schermo delle
formule che plausibilmente si rifanno alla radice scientifica della
nozione sopraccitata. A meno di non essere dei matematici è
però impossibile carpire tale informazione, ma ad un’analisi ex post
ecco che Soliton squaderna i propri intenti.
Nel giro di poco
comprendiamo che il misterioso camminatore non si trova in un qualche conflitto, bensì in una zona appena disastrata da un flagello
che proprio il Giappone, a livello di nome, ha sdoganato in tutto il
pianeta: tsunami. Così, come Himizu (2011) e The Tsunami and the Cherry Blossom (2011), altri due film trattati in
codesti luoghi che raffigurano, in modo diverso, i disastri causati
dal terremoto nel marzo ’11, anche Soliton vuole partecipare
alla luttuosità dell’apocalittico episodio, nel mentre si
profila l’idea che l’articolazione di Hirabayashi in siffatti
termini sia ancor più azzeccata per fronteggiare il
tentativo di immedesimazione spettatoriale. Quindi abbiamo: un’idea
formale intrigante orientata verso un livello partecipativo
totalizzante, il calcare gli scarponi con l’irrimediabile peso
dell’essere umani sui resti della civiltà si slancia per
traslazione in un monito in cui siamo tirati dentro più di
quanto possiamo sottostimatamente ipotizzare. La pecca, altresì descrivibile pignoleria personale, è data dal fatto che comunque
l’impostazione del regista soggiace in maniera intuibile ad una
legge non scritta per cui l’avanzata dell’uomo (che siamo noi,
giusto per ribadirlo) è predicibile che possa
debba “scontrarsi” con qualcuno, profezia che precisa precisa si
avvera. Ad ogni modo lana caprina, per molti. Poi i crediti finali,
una carrellata di immagini catastrofiche che esibisce il nucleo argomentativo (esibire è
male, non era necessario), e apertura
abissale sul mare (l’anonimato del mare è non mostrare, ed è
bene, perché si vede il necessario), covo di morte e
disperazione.
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