Interessato, per quanto
si è potuto vedere, alle forme del dramma sociale, il regista
olandese Martijn Maria Smits prima della prostituzione di Under the Weight of Clouds (2012) si è occupato di
disoccupazione nel 2009 con Anvers. Come per il film che verrà
anche questo focalizza l’attenzione su figure emarginate
dall’esistenza pericolante, di certo non ci troviamo in un contesto
così duro come può essere quello di una meretrice
immigrata, e ciò comporta del giovamento: per fortuna la
tendenza a “pornografare” l’eventuale tragedia qui è
mitigata da Smits che opta per un tono minore punteggiato da momenti
morti, ininfluenti ma non superflui, esposti con un metodo molto
realista, uno stile che negli anni zero, in Europa, abbiamo visto
arrivare a fiotti dalla Romania. E non ci troviamo neanche
al cospetto di un trattato sulla crisi, anche se viene accennata il
regista non ha il tempo né le qualità per farlo. Il
richiamo al periodo storico è solo un’appendice perché
la storia del giovane compagno senza lavoro con domicilio in casa dei
suoceri e con figlia da mantenere è vicenda in sé,
slegata, senza esserlo del tutto, dalle ragioni dell’attualità,
e il dondolio tra l’indipendenza dal sociale e la comunque
appartenenza alle velleità di denuncia parcheggiano Anvers
nel limbo dell’indolenza.
(una parentesi a
mezz’aria è il posto giusto per una contestazione che non è
riuscita ad entrare nella dissertazione generale: ad un certo punto
il ragazzo penetra in una casa (la sua ex casa?) e inizia a spaccare
tutto. Perplessità a tutta birra. Se qualcheduno mai vedrà,
è pregato di chiarificare)
Dal suddetto limbo emerge
indubitabilmente un aspetto principe: che Anvers ha
essenzialmente a cuore la crisi della coppia e non la crisi
economica. Il fatto che ci sia un legame è innegabile (la
questione che lui sia senza una professione e il suo essere un po’
lassista lo inimicano agli occhi della compagna ancor prima che a
quelli dei suoceri), come è altrettanto innegabile
l’accentramento sentimentale di Smits; dal momento della lite si
dispiegano i caratteri e le afflizioni dei protagonisti, ma anche qua
l’assenza di minuti e di doti effettive a disposizione non
sollevano il corto dall’area dell’intenzione. Sarebbe stata
un’impresa riuscire a far trasmigrare dentro un film così
ancorato al reale e in un tempo così esiguo l’enorme
matassa di un’unione in disgregazione, dei moti sotterranei e della
lava covata in prossimità dell’eruzione. Rinvenendo l’apatia
della donna durante la breve vacanza e la rassegnazione al luppolo
del consorte si constatano al massimo i pigmenti di una
raffigurazione virtualmente spropositata.
(anche una parentesi a
piè di commento può avere un motivo d’essere: nel
settore del breve, per chi fosse interessato a problemi coniugali può
rivolgersi a Km (2012). La comparazione mostrerà il
diverso approccio e la diversa struttura del corto greco nei
confronti di quello orange. Preferire il congegno ellenico è
pressoché automatico)
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