lunedì 12 settembre 2016

Evolution

È passato un po’ di tempo dalle visioni de La bouche de Jean-Pierre (1996) e Innocence (2004) ma mi sento di affermare con una certa sicurezza che questi due film stringono un laccio molto forte con Évolution (2015) poiché è da tale triade che si profila un dato di fatto: l’ossessione di Lucile Hadžihalilović verso l’infanzia, una fisima, scontato dirlo, il cui approccio non è mai stato convergente l’ortodossia, nessuna favola, nessuna buonanotte, la moglie e collaboratrice di Gaspar Noé ha sempre avuto un modo di intendere la tenera età tutto suo e nella proposta fornita nel corso degli anni si allungano tuttora minacciose forme incubiche, fantasmi perturbanti ed echi di suadente diabolicità. Il cinema della Hadžihalilović non dispiace, almeno al sottoscritto, così come è piaciuto, e non poco, Evolution che rispetto alle due opere precedenti si trova in zone maggiormente elevate (o profonde, a seconda dei punti di vista), e dove la veste estetica, tanto per cominciare a tesserne le lodi, è impreziosita da una fotografia di altissima fattura firmata da Manuel Dacosse (Amer, 2009). Un apparato visivo di prim’ordine, decisamente più curato – come è giusto che sia – della storia mercuriale raccontata, produce un gradito magnetismo nei confronti di chi guarda il quale non deve far altro che lasciarsi invadere dagli assalti artistici della regista, la resa, che deve essere immediata, permette il conseguente godimento di una traiettoria rimarchevole capace di creare suggestioni oserei dire memorabili.

Non saprei affermare in assoluta onestà se nell’idea di base della Hadžihalilović vi fosse una componente sottotestuale, il tipico rimando a questioni latenti criptate da situazioni altre, il tasso di astrazione è così alto che è preferibile subire il nonsense di Evolution piuttosto che impaludarsi nell’ostinata ricerca di significati obbligatori. Il concetto appena espresso mi permette di aprire un’inutile parentesi su Lanthimos che potete tranquillamente saltare a piè pari: (perché questo titolo è potenzialmente un prodotto lanthimosiano [o tsangariano], cioè: un luogo-non-luogo dove gruppi di bambini sono sottoposti a strani esperimenti? Feta pregiata per il greco, anche se, e qua sta lo scarto decisivo, l’autrice francese evita di metaforizzare in maniera pesante il film, senza una lettura precisa dietro le immagini resta un’indeterminatezza che non so voi, ma a me appaga di più). Tornando in topic, quello che però è possibile riportare come informazione concreta è la qualità che ha il film nel sfiorare l’etichetta horror-sci-fi senza però compiervi una netta iscrizione, ciò non accade perché comunque sussiste una forte autorialità alla base del lavoro che impedisce l’assimilazione al genere, tuttavia il fatto di orbitare attorno ad un ospedale à la Silent Hill, o di illustrare attività da mad doctor, o ancora di cogliere una comunità di “madri”-tutor che si sollazzano in sabba marini, sono tutti elementi che conferiscono una tastabile inquietudine alla pellicola e che non sono esattamente i connotati di un comune film d’essai.

Venendosi a creare un limbo categoriale in codesti termini lo scivolamento all’interno di Evolution non può che essere ancor più destabilizzante proprio perché tale limbo fa da contenitore ad un’ulteriore incertezza che è quella prettamente diegetica. Spaesati e spaventati dai non prevedibili sviluppi riguardanti il ragazzino protagonista, nuotiamo con lui nel mare amniotico alla ricerca di una Stella Polare che possa guidarlo. La faccenda della stella è l’ingrediente che più si rifà ad una grammatica narrativa, il suo essere ricorsivo (della Stella) è un chiaro segnale sceneggiaturiale della Hadžihalilović che vi punteggia la vicenda: è quella marina appoggiata su un cadavere a dare il via, ed è sempre l’echinoderme oggetto di attenzioni da parte di Nicolas, prima la deturpazione e poi l’accudimento, inoltre il neon della sala operatoria è chiaramente stelliforme e infine l’auspicata salvezza si incarna in Stella, l’infermiera buona ritratta dal bimbo nel suo quaderno. Insomma, la regista ci fornisce perfino una traccia da seguire che non vuole e non deve essere esemplificativa, è una cosa a sé, forse un punto da cui estrapolare una macro morale che prescinde dal film stesso (la libertà data da una Stella…) e che non ne intacca la cifra anti-letterale. Guardare, in questo caso, è sinonimo di non respirare, l’apnea è infatti il vero e unico stato fisico-emotivo in cui precipiterà lo spettatore assistendo ad Evolution.

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