È passato un po’
di tempo dalle visioni de La bouche de Jean-Pierre (1996) e
Innocence (2004) ma mi sento di affermare con una certa
sicurezza che questi due film stringono un laccio molto forte con
Évolution (2015) poiché è da tale triade
che si profila un dato di fatto: l’ossessione di Lucile
Hadžihalilović
verso l’infanzia, una fisima, scontato dirlo, il cui approccio
non è mai stato convergente l’ortodossia, nessuna favola,
nessuna buonanotte, la moglie e collaboratrice di Gaspar Noé
ha sempre avuto un modo di intendere la tenera età tutto suo e
nella proposta fornita nel corso degli anni si allungano tuttora
minacciose forme incubiche, fantasmi perturbanti ed echi di suadente
diabolicità. Il cinema della Hadžihalilović
non dispiace, almeno al sottoscritto, così come è
piaciuto, e non poco, Evolution che rispetto alle due opere
precedenti si trova in zone maggiormente elevate (o profonde, a
seconda dei punti di vista), e dove la veste estetica, tanto per
cominciare a tesserne le lodi, è impreziosita da una
fotografia di altissima fattura firmata da Manuel Dacosse (Amer,
2009). Un apparato visivo di prim’ordine, decisamente più
curato – come è giusto che sia – della storia mercuriale
raccontata, produce un gradito magnetismo nei confronti di chi guarda il
quale non deve far altro che lasciarsi invadere dagli assalti
artistici della regista, la resa, che deve essere immediata, permette
il conseguente godimento di una traiettoria rimarchevole capace di
creare suggestioni oserei dire memorabili.
Non saprei affermare in
assoluta onestà se nell’idea di base della Hadžihalilović
vi fosse una componente sottotestuale, il tipico rimando a questioni
latenti criptate da situazioni altre, il tasso di astrazione è
così alto che è preferibile subire il nonsense di
Evolution piuttosto che impaludarsi nell’ostinata ricerca di
significati obbligatori. Il concetto appena espresso mi permette di
aprire un’inutile parentesi su Lanthimos che potete tranquillamente
saltare a piè pari: (perché questo titolo è
potenzialmente un prodotto lanthimosiano [o tsangariano], cioè:
un luogo-non-luogo dove gruppi di bambini sono sottoposti a strani
esperimenti? Feta pregiata per il greco, anche se, e qua sta lo
scarto decisivo, l’autrice francese evita di metaforizzare in
maniera pesante il film, senza una lettura precisa dietro le immagini
resta un’indeterminatezza che non so voi, ma a me appaga di più).
Tornando in topic, quello che però è possibile
riportare come informazione concreta è la qualità che
ha il film nel sfiorare l’etichetta horror-sci-fi senza però
compiervi una netta iscrizione, ciò non accade perché
comunque sussiste una forte autorialità alla base del lavoro
che impedisce l’assimilazione al genere, tuttavia il fatto di
orbitare attorno ad un ospedale à la Silent Hill, o di
illustrare attività da mad doctor, o ancora di cogliere
una comunità di “madri”-tutor che si sollazzano in sabba
marini, sono tutti elementi che conferiscono una tastabile
inquietudine alla pellicola e che non sono esattamente i connotati di
un comune film d’essai.
Venendosi a creare un
limbo categoriale in codesti termini lo scivolamento all’interno di
Evolution non può che essere ancor più
destabilizzante proprio perché tale limbo fa da contenitore ad
un’ulteriore incertezza che è quella prettamente diegetica.
Spaesati e spaventati dai non prevedibili sviluppi riguardanti il
ragazzino protagonista, nuotiamo con lui nel mare amniotico alla
ricerca di una Stella Polare che possa guidarlo. La faccenda della
stella è l’ingrediente che più si rifà ad una
grammatica narrativa, il suo essere ricorsivo (della Stella) è
un chiaro segnale sceneggiaturiale della Hadžihalilović
che vi punteggia la vicenda: è quella marina appoggiata su un
cadavere a dare il via, ed è sempre l’echinoderme oggetto di
attenzioni da parte di Nicolas, prima la deturpazione e poi
l’accudimento, inoltre il neon della sala operatoria è
chiaramente stelliforme e infine l’auspicata salvezza si incarna in
Stella, l’infermiera buona ritratta dal bimbo nel suo quaderno.
Insomma, la regista ci fornisce perfino una traccia da seguire che
non vuole e non deve essere esemplificativa, è una cosa a sé,
forse un punto da cui estrapolare una macro morale che prescinde dal
film stesso (la libertà data da una Stella…) e che non ne
intacca la cifra anti-letterale. Guardare, in questo caso, è
sinonimo di non respirare, l’apnea è infatti il vero e
unico stato fisico-emotivo in cui precipiterà lo spettatore
assistendo ad Evolution.
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